Mussolini sosteneva che l’importante è durare. Sapeva quel che diceva. Perché se un regime dura, poco alla volta i suoi avversari addivengono a più miti consigli. Si adeguano. E, così facendo, si uniformano al nuovo ordine. Durante il Ventennio tutto ciò si è verificato nei più disparati campi: dal giornalismo all’università. Firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, nel 1937 Giovanni Ansaldo diventa direttore del Telegrafo, la testata della famiglia Ciano. Mario Missiroli si batte a duello con Mussolini. Ma poi, uomo di grande ingegno ma non un cuor di leone, incenserà il dittatore con articoli e libri. Perfino un antifascista senza macchia e senza paura come Piero Calamandrei accetterà l’invito del guardasigilli Dino Grandi a collaborare alla stesura del codice di procedura civile. Appena dodici professori saranno rimossi per non aver giurato fedeltà al fascismo. Ecco, ci fu anche chi non abbassò la testa e combattè la dittatura perché voleva vivere libero in un ordinamento autenticamente democratico. A costoro, fulgido esempio per le nuove generazioni, andrà la nostra sempiterna gratitudine.
Ora si dà il bel caso che il fascismo è morto e sepolto da più di settant’anni. Da quando gli italiani non mossero un dito per salvare il dittatore, liberato quattro giorni dopo l’armistizio dai tedeschi su ordine di Hitler. Lo certifica lo stesso Matteo Renzi. Prima dichiara che «il fascismo appartiene al passato». Ma poi aggiunge che il suo fantasma «va sempre combattuto». E in un crescendo rossiniano, dopo aver affermato di essere orgogliosamente antifascista, dice che «chi non è antifascista non è degno della comunità democratica». L’antifascismo è un fenomeno storico che si è manifestato tra le due guerre. Ma fin dall’immediato secondo dopoguerra, non appena la cortina di ferro ha diviso in due l’Europa, l’antifascismo non è stato più un valore condiviso. Perché le sue due facce, rappresentate rispettivamente da chi intendeva instaurare una dittatura comunista e da chi invece si batteva per una democrazia schiettamente liberale, sono entrate subito in rotta di collisione. E un po’ dappertutto i comunisti sono stati estromessi dai governi perché guardavano con ammirazione al paradiso sovietico.
E allora questo antifascismo fuori tempo massimo è sospetto. Per anni l’ex sindaco di Firenze ha coltivato il sogno dello sfondamento al centro. Ma dopo le elezioni europee, per il suo Pd è stato buio pesto. Eppure le ha tentate tutte. Al punto da “decomunistizzare” il suo partito e costringere i vecchi compagni ad aprire una nuova ditta. Ma sono stati tutti buchi nell’acqua. E ora che Pietro Grasso e compagnia cantante stanno sul 6-7%, il segretario del Pd usa l’espediente dialettico dell’antifascismo (ma quale dei due, di grazia?) per accreditarsi di sinistra ed erodere qualcosina all’arcinemico Massimo D’Alema al fine di ottenere qualche seggio in più. È in buona compagnia, del resto. Chi si è inventato la patente antifascista, conditio sine qua non per ottenere spazi comunali, non solo attenta alla libertà di manifestazione del pensiero garantita a tutti dall’articolo 21 della Costituzione, ma rappresenta anche la dimostrazione vivente di non essersi disfatto del tutto dei globuli rossi del tempo che fu. Una sorta di richiamo della foresta. E che dire del comune di Mantova, che ha revocato alla Buonanima la cittadinanza onoraria? Un infortunio. Perché abbiamo il fondato sospetto che diversi ascendenti di chi oggi l’ha revocata la concessero o perché ci credevano o, peggio, per servilismo.
Insomma, la morale della favola non ci vuole molto a comprenderla nuda e cruda. La verità è che per un pugno di voti e di seggi in più si può delirare.
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