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Il lavoro e l’anello mancante

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L'Editoriale|voto e disoccupati

Il lavoro e l’anello mancante

Nel giorno in cui si dovrebbe fare festa per il ritorno della produttività del lavoro si impone l’amara analisi della cartina dell’Italia declinata secondo il tasso di disoccupazione. E l’Italia al Sud si copre di giallo, il giallo M5s, dove la mancanza del lavoro è più forte.

Il lavoro è stato parte dei racconti e degli slogan della campagna elettorale (ma non certo l’unico e forse non il primo) così come è stato fortemente parte del racconto renziano. Se oggi il neo tesserato Carlo Calenda riflette sul rischio che il Pd sia stato percepito come partito d’élite ha probabilmente ragione. La scommessa sacrosanta sul Jobs Act e su uno sviluppo con al centro le imprese e l’innovazione, non l’assistenzialismo o il posto pubblico, è stata l’oggetto di Industria 4.0 e della battaglia riformista contro certo giuslavorismo da metà Novecento. Obiettivi adatti a un Paese che è la seconda manifattura d’Europa con ambizioni di migliorare ancora il palmares.

Una narrativa incentrata sull’ottimismo della volontà, sul non vittimismo, sul potere del bello, sulle eccellenze industriali del made in Italy, sul talento dei makers e delle startup era corretta per risollevare anche psicologicamente una cittadinanza depressa dopo la falcidia dei colpi della recessione. Si è tradotta in una “questione settentrionale” che ha fatto di Milano, dall’Expo alla nuova skyline, il simbolo della svolta, dimenticando però che era un’eccezione. La “questione meridionale” è sparita dai radar e il racconto ha finito per tralasciare l’altra parte del Paese, quella della desertificazione industriale e della disoccupazione giovanile da incubo, dell’immigrazione interna in crescita esponenziale e dell’allargamento delle fasce di povertà relativa.

E nel contempo quel racconto non ha colto il volto dei gig-workers al di là del mito moderno, quando è, ad esempio, precarietà accoppiata ad alta istruzione o difficoltà di “dialogo” se il tuo datore di lavoro è un algoritmo. Eppure è uno dei canali principali per il nuovo lavoro perché legato all’esplosione della logistica di supporto all’e-commerce; è il frutto nuovo della disintermediazione economica, uno dei rivoli del nuovo paradigma culturale che il M5s ha portato anche in politica. Per fare grandi numeri nell’occupazione servono anche grandi stabilimenti e non bastano le startup (per definizione non labour intensive). Servono investimenti e politiche adatte per creare i contesti per attrarli, un tema su cui le nuove forze politiche vincenti dovranno cimentarsi quanto prima.

Il Jobs Act ha funzionato e ha creato oltre un milione di posti di lavoro e li sta ancora creando ora che l’Italia è uscita finalmente dalla recessione più dura e cresce. Ciò che manca da sempre è il corredo delle politiche attive che consentano l’incontro ottimale tra domanda e offerta e attutiscano i momenti drammatici dei passaggi da un lavoro all’altro o di chi un lavoro non lo trova. È qui l’autostrada che il M5s ha percorso in lungo e in largo nella campagna elettorale. Ed è in questo contesto che probabilmente anche il mito del reddito di cittadinanza si derubricherà alla più prosaica realtà di una nuova indennità di disoccupazione.

Più che tornare indietro ai tempi delle dispute ideologiche sull’articolo 18 (la domanda è: se si ripristinasse l’articolo 18 si tradurrebbe in più occupati?) è meglio ricominciare da ciò che manca o che ha funzionato male. Innanzitutto dal sistema di incentivazione per le assunzioni dei giovani. Prima la deregulation dei contratti a termine e il loro alleggerimento fiscale ne ha fatto lo strumento principe per l’ingresso nel lavoro; poi gli incentivi a singhiozzo per le assunzioni con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti hanno creato disorientamento in chi quelle assunzioni doveva farle davvero. Il paradosso del contratto di apprendistato dice il resto: è lo strumento più incentivato e sulla carta più conveniente per le imprese, ma resta il meno usato. L’alternanza scuola-lavoro resta il tema strategico su cui ancora c’è molto a fare.

Anche il lavoro ha un suo lato oscuro e portatore di contraddizioni per chi deve tradurre le semplificazioni delle campagne elettorali nella complessità di un mondo fatto di leggi europee, nazionali e locali e di contratti. Il rischio di dumping dovuti alla globalizzazione e alle scorciatoie salariali è sempre dietro l’angolo. Questo costringe a farsi domande sulle direttrici dello sviluppo: che fare dell’industria pesante? Quale deve essere il futuro energetico? Bisogna continuare a creare campioni industriali europei, magari a cominciare dalla Difesa? Ogni risposta crea o distrugge posti di lavoro. E lo farebbe un cambio radicale di modello di sviluppo.

Due casi su tutti sono di esempio: se l’Ilva di Taranto verrà trasformata in un centro di ricerca industriale che faranno le molte migliaia di lavoratori (a qualifiche operaie) del tutto inadatte alla nuova missione? Se la fabbrica di alluminio del Sulcis sarà lasciata morire siamo sicuri che gli ex operai potranno tutti entrare nel business del turismo o diventare tutti formaggiai? Il mondo di un Paese trasformatore e vocato all’export passa dalla nuova frontiera delle nanotecnologie, dall’integrazione uomo-robot, dai brevetti e dall’ingresso nelle grandi catene del valore globali; sarebbe assurdo restarne fuori per fare dell’Italia solo un Paese da masterchef.

In certe regioni del Sud il primo datore di lavoro è la pubblica amministrazione (e spesso offre i servizi peggiori) quella che i vincitori del 4 marzo dicono di voler semplificare: significa tagliare interi ruoli di un’amministrazione di veti e quindi ridurre i burocrati e, quando non significa taglio netto, significa automazione, pochi giovani qualificati versus molti senior senza profilo professionale adatto. L’altro creatore di occupazione da grandi numeri sono le infrastrutture; non a caso gran parte del piano di sviluppo di Trump è quello di ricostruire l’America. Probabilmente, come ha detto Steve Bannon, guru del Trump della campagna elettorale, nell’urna del 4 marzo è arrivato più di uno spiffero di quel vento a stelle e strisce, ma, soprattutto per un Movimento supporter di ogni mossa dei No Tav o dei No Tap, infrastrutture è più una parola tabù che un’opportunità. La fascinazione del reddito di cittadinanza è il miraggio per il nuovo proletariato (quello vero quando c’è) ma è anche lo sfizio intellettualoide di chi prospetta una società senza lavoro. Purtroppo nel mezzo non c’è solo l’idea della società che vogliamo disegnare, ma ci sono anche i vincoli di bilancio. E non hanno colore politico, ma sono solo la tinta coprente del partito della realtà.

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