Una delle più importanti “lezioni della crisi” ovvero quel sapere duramente acquisito grazie alla più grave depressione della nostra storia, riguarda la necessità di evitare i cosiddetti effetti pro-ciclici, al momento di varare nuove regole per contenere l’instabilità finanziaria futura. È essenziale cioè, raccomandano oggi economisti, esperti e rappresentanti delle istituzioni, che le nuove norme prudenziali non siano tali da approfondire le fluttuazioni del ciclo economico, aggravando gli effetti della prossima recessione, invece di attenuarli.
Ebbene, a giudicare dalle caratteristiche dell'”Addendum” varato definitivamente dalla Vigilanza Bce, non pare che le preoccupazioni di non indebolire il percorso dello sviluppo siano in cima all’agenda della squadra diretta da madame Daniele Nouy. Nel presentare la nuova disciplina Bce Sharon Donnery, vicegovernatore della Banca d’Irlanda, si è limitata a dichiarare che l’impatto sui prestiti all’economia e sugli accantonamenti delle banche derivante dall’Addendum sarà «modesto e gestibile»; però ha aggiunto che la Bce ha preferito non rendere pubblica la propria analisi d’impatto economico.
Forse perché le reali conseguenze saranno tutt’altro che trascurabili? Non basta. Donnery ha anche ammesso che, diversamente dalla normativa di primo pilastro appena messa a punto dalla Ue, le “aspettative” della Vigilanza di Francoforte nei confronti delle aziende di credito sono di tipo retroattivo (infatti si applicano, per le banche significative, ai nuovi crediti deteriorati a partire dal primo aprile prossimo, erogati evidentemente in anni passati). Si potrebbe ritenere che un’indicazione di questo tipo, diversa e contraddittoria rispetto a ciò che è stato appena deciso in sede europea, possa essere giustificata da una sorta di “neghittosità” delle aziende di credito in paesi con elevati stock di crediti cattivi.
Però se guardiamo in casa nostra, i dati non sembrano affatto giustificare questa ipotesi: in Italia i flussi di crediti deteriorati sono in costante diminuzione a partire dal 2014 e attualmente in rapporto al totale dei prestiti si collocano al 2,1% (1,4% per il settore delle famiglie e 3,2% per quello delle imprese). E tutto questo accade in un paese dove, nonostante le riforme varate, ancora occorrono in media più di sette anni per chiudere una procedura fallimentare e servono tre anni per risolvere una controversia in un tribunale di prima istanza.
Un paese nel quale, è vero, la crescita economica nel 2017 ha fatto registrare finalmente un +1,5 per cento, il miglior risultato dal 2010, superato solo tre volte dal 2000. Sbaglierebbe però chi volutamente ignorasse che lo sviluppo italiano (tuttora legato in via prevalente al polmone bancario per il suo finanziamento) sia di costituzione più fragile rispetto a quello dei suoi partner. Dal 2010 ad oggi il divario cumulato di crescita tra l’Italia e i suoi vicini di casa francesi e tedeschi è stato pari a quasi 9 punti percentuali. Davvero si vuol fare a meno di queste “lezioni della crisi”?
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