Lo scandalo Cambridge Analytica ha messo per la prima volta all'angolo un colosso come Facebook. Le ripercussioni finanziarie e di immagine sono pesanti, e non è un caso che qualcuno abbia messo in discussione finanche la leadership di Mark Zuckerberg. Le acque, insomma, sono agitate. Facebook ha bruciato 100 miliardi di dollari da quando questo datagate è esploso. La preoccupazione è palpabile, e si è ripercossa sulle parole del Ceo che ha fatto filtrare poco ottimismo, parlando di anni di lavoro necessari per risolvere ogni problema.
Questo succede ai piani alti, dove si muove il denaro che conta. Quello che accade dal punto di vista degli utenti, invece, è una storia già vista. Una storia che racconta come ogni operazione di boicottaggio nei confronti della grande industria tecnologica sia miseramente fallita.
L'ultima in ordine di tempo è la campagna lanciata con l'hashtag #DeleteFacebook. Una campagna di boicottaggio, nata proprio dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, che ha visto da subito la partecipazione di personaggi importanti come Elon Musk (Ceo e fondatore di Tesla) e Brian Acton (cofondatore di WhatsApp). Col passare dei giorni, mentre in borsa il social network di Menlo Park ha continuato a perdere miliardi, la bolla di #DeleteFacebook si è clamorosamente sgonfiata, palesandone l'inconsistenza. Ma c'è anche il lato beffardo di questa storia: molti degli utenti che hanno cancellato il loro account Facebook, hanno chiesto ai loro amici di ritrovarsi su Instagram, dimenticando che i due social network appartengono allo stesso padrone.
Quello della perdita di utenti, insomma, rimane l'ultimo dei problemi per Zuckerberg. Il suo colosso da 2,2 miliardi di iscritti è destinato a crescere ulteriormente, nonostante lo scandalo sui dati. E il motivo è abbastanza semplice. I prodotti e i servizi offerti da aziende come Facebook, Google, Apple e Amazon sono contraddistinti da una pervasività enorme. Negli anni si è creato un ecosistema irreversibile, e le operazioni di boicottaggio sono fallite inesorabilmente. Lo dice la storia. Le persone che in questi anni hanno provato a punire le grandi aziende tecnologiche dichiarando guerra ai loro prodotti (o servizi) sono state ripetutamente rimbalzate dalla difficoltà di sfuggire alle grinfie dei colossi. Uno degli esempi più recenti riporta a Google, che l'anno scorso – dopo aver licenziato un ingegnere (James Damore) per aver criticato l'azienda sui temi della diversità – si è trovata davanti alla protesta di centinaia di persone che sui social media chiedevano di boicottare l'azienda di Mountain View. Ma un'analisi su quasi 7mila tweet contenenti l'hashtag #BoycottGoogle ha dimostrato come il 26% di questi provenissero da device con software Android, dunque Google.
Anche Apple e Amazon, nel corso di questi anni, sono finite più volte nel mirino dei boicottatori. E ogni volta gli effetti sono stati impercettibili, dissolvendosi nel giro di qualche giorni. Alcuni clienti di Amazon, dopo gli scandali che hanno travolto la società di Bezos circa le condizioni di lavoro nei suoi magazzini, avevano deciso di non effettuare più acquisti sulla piattaforma. Ma il risultato beffardo fu quello di finire nei supermercati Whole Foods vicino casa, di proprietà della stessa Amazon. Su Apple, infine, il New York Times riporta il caso dell'utente che lo scorso febbraio twittava con insistenza utilizzando l'hashtag #BoycottApple, scontento per alcuni servizi. Un'analisi dei tweet ha però confermato che per cinguettare, il tizio, utilizzava un iPhone.
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