Nelle scorse settimane ha suscitato attenzione (anche su questo giornale) la sentenza del Consiglio di Stato n. 1571 del 12 marzo 2018 (Sez. III), in materia di criteri distintivi tra appalto e somministrazione.
La particolarità della sentenza non sta tanto nei principi affermati, del tutto coerenti con la giurisprudenza consolidata della Cassazione in materia, quanto nella particolarità del caso, che coinvolge la Pubblica Amministrazione, come si evince dal fatto che sia proprio la giustizia amministrativa ad occuparsi di una questione squisitamente giuslavoristica.
Riepiloghiamo brevemente la vicenda. Una Asl indice una gara per l’affidamento di attività di supporto ai propri uffici nei settori più disparati (amministrativo, tecnico, contabile, di segreteria, front-office e vari altri), qualificandolo come appalto di servizi. Ne consegue che la partecipazione alla gara è aperta a tutte le imprese commerciali, con particolari requisiti d’accesso incentrati sullo svolgimento di servizi analoghi a quelli oggetto di gara. Una società di somministrazione impugna il bando sostenendo che, per quanto si legge nel bando stesso, la procedura avviata dalla Asl ha ad oggetto non un appalto di servizi, bensì una somministrazione di lavoro. Quindi avrebbero dovuto essere ammesse alla gara solo le agenzie per il lavoro autorizzate all’attività di somministrazione, che viceversa non avevano potuto neppure partecipare in quanto prive dei particolari requisiti di accesso richiesti.
In primo grado il Tar respinge le domande dell’agenzia. In appello la sentenza viene capovolta, e il bando di gara annullato.
Il Consiglio di Stato, con una articolata e ben strutturata decisione, ritiene che il “servizio” richiesto dalla Asl e messo a gara altro non sia che una fornitura di manodopera, cioè una somministrazione di lavoro, che può essere effettuata solo dai soggetti autorizzati, le agenzie per il lavoro, che garantiscono il rispetto delle garanzie previste dalla legge per i lavoratori somministrati.
A queste conclusioni il Consiglio di Stato giunge sulla base di una disamina delle stesse previsioni del bando. E qui sta una delle peculiarità della sentenza. Alla affermazione della non riconducibilità della fattispecie ad un genuino appalto di servizi si arriva non sulla base di un’istruttoria in una causa promossa dal lavoratore impegnato nell’appalto, o di un accesso degli organi ispettivi, come normalmente accade in questo tipo di vicende. La non genuinità dell’appalto emerge per tabulas dalla descrizione delle caratteristiche del servizio richiesto contenuta nel bando di gara. Prima tra tutte la natura delle prestazioni richieste dalla Asl, consistenti non in un opus o comunque in un risultato, ma in un determinato numero di ore di lavoro annue per ciascun settore di attività.
Anche il corrispettivo del servizio posto a base d’asta, del resto, era determinato con riferimento al “costo” di un’ora di lavoro moltiplicato per il numero di ore richieste, senza alcun collegamento con un qualsivoglia concreto risultato delle prestazioni di lavoro fornite. Il che ha reso evidente come la Asl intendesse ottenere non un servizio ben identificabile, bensì un certo numero di persone che andasse ad integrare l’organico (insufficiente) dell’ente per fornire un apporto di lavoro indistinguibile da quello dei dipendenti dell’ente stesso.
L’esame della fattispecie alla luce dei tradizionali criteri distintivi tra somministrazione e appalto ha portato il Consiglio di Stato a concludere per l’insussistenza di un genuino contratto di appalto. In particolare, nella sentenza si evidenzia come dalle disposizioni del bando emerga chiaramente che l’organizzazione dei mezzi necessari allo svolgimento del servizio e l’esercizio del potere direttivo nei confronti dei lavoratori impiegati nella commessa siano in capo alla Asl. Le modalità di determinazione del corrispettivo, rapportato alle ore di lavoro fornite, escludono poi nella sostanza il rischio d’impresa.
Si può comprendere che, in epoca di restrizione alle assunzioni, la Pa cerchi di integrare l’organico come può per fornire i servizi richiesti dall’utenza. Ma questo non giustifica il ricorso a forme di acquisizione del lavoro illegittime o comunque improprie, quando l’ordinamento offre strumenti legittimi (e rispettosi dei diritti del lavoratori) per ottenere la stessa cosa. Stupisce che, a 15 anni di distanza dall’introduzione della somministrazione di lavoro, si possa ancora far ricorso ad appalti non genuini per mascherare una fornitura di manodopera. Stupisce ancora di più che a farlo sia la Pa, che quanto a legalità dovrebbe dare il buon esempio.
© Riproduzione riservata