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Dossier Regole specifiche per i lavoratori digitali

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    Dossier | N. 16 articoliLavoro e diritti, le regole ai tempi della «gig economy»

    Regole specifiche per i lavoratori digitali

    Quale lavoro merita protezione? Quale protezione merita il lavoro? Sono queste le domande alle quali, ancora una volta, siamo chiamati a rispondere. Sempre le innovazioni tecnologiche hanno trasformato il lavoro, alimentando nuove figure professionali o nuove modalità produttive, spinte dal «soffio moderno della vita pratica» (per citare Lodovico Barassi, considerato il padre del diritto del lavoro italiano). Fu così ai primi del 900 per i barrocciai che trasportavano merce con il carro e i cavalli e fu così per i pony express, che – già negli anni 80 – circolavano nelle nostre città.

    Oggi siamo colpiti dall’avvento delle piattaforme digitali e dalla loro capacità di modificare la produzione, il lavoro e il consumo. Anch’esse (in quanto mezzi) possono inseguire diversi fini, diversi padroni, diverse visioni del mondo.

    Per un verso, le piattaforme supportano la condivisione di beni o servizi sottoutilizzati, contrastando le distorsioni del mercato in nome di una sensibilità di stampo etico-ideale e/o di mere esigenze di risparmio (si pensi al car sharing), oppure favoriscono la socializzazione di informazioni e di saperi (come nel caso di Wikipedia) magari filtrati dalla dimensione ludica o artistica.

    Per altro verso, lo stesso strumento tecnologico consegna al capitalismo nuovi orizzonti di profitto nello spazio sconfinato della rete, spostando la ricchezza in punti sempre più remoti nel processo di estrazione del valore. Una cosa è certa: in questa gigantesca opera di disintermediazione tra produzione e consumo, il profitto da qualche parte continua ad allocarsi.

    Spesso la piattaforma si presenta sul mercato come una agorà digitale che favorisce l’incontro tra fornitori e utenti di beni o servizi, svolgendo una funzione di mediazione/selezione tra domanda e offerta. Già in tale fase, in cui sembra mancare il potere di organizzare il lavoro altrui, il diritto del lavoro potrebbe avere qualcosa da dire, anziché lasciare questi fenomeni ad altri settori dell’ordinamento. Quando la piattaforma si limita a selezionare fornitori (come vengono chiamati), mettendoli in contatto con il cliente, che compenserà il bene o il servizio, tale attività potrebbe essere considerata nella regolazione pubblica dell’intermediazione di manodopera, allorquando il gestore della piattaforma tragga un lucro da questa attività. Né si può escludere l’utilità di tecniche di corresponsabilizzazione della piattaforma negli obblighi in capo all’utente finale, ricorrendo al principio di solidarietà debitoria, operante nelle forme di lecito decentramento produttivo (come l’appalto), almeno per il pagamento del corrispettivo. Se poi si pensa alla capacità degli algoritmi di processare un’enorme mole di dati sul conto della forza lavoro, sfruttando il complesso delle informazioni, anche privatissime, presenti in rete, emerge il rischio di un uso opaco di tali dati nella selezione/distribuzione delle occasioni di lavoro.

    Lo scenario cambia quando la piattaforma fornisce direttamente il bene o il servizio all’utente, avvalendosi del lavoro ingaggiato. Qui si impone la sotto-distinzione tra work on demand e crowdsourcing. Nel primo caso, la piattaforma favorisce l’esecuzione di una prestazione che si materializza nell’economia reale (trasporto, pulizie, baby-sitting, ecc.). Spesso, ci troviamo di fronte a un lavoro – nei suoi contenuti – a bassissima densità tecnologica. Ovviamente, le piattaforme provano a tenersi alla larga dal diritto del lavoro, escludendo l’esistenza di qualsiasi ingerenza sull’organizzazione del lavoro. E così rischiamo di perderci nel labirinto della qualificazione giuridica del lavoro, come insegnano i casi Uber e Foodora.

    Nel secondo caso, il lavoro si svolge interamente online, attraverso l’affidamento di compiti a una folla indeterminata, contattata mediante una call rivolta al migliore o al più veloce. Qui il lavoro scompare alla vista e la sua remunerabilità finisce per essere condizionata alla valutazione positiva dell’attività da parte del cliente. Siamo di fronte al frazionamento della produzione in minuscole commesse, che trasferisce la variabilità della domanda sul fattore lavoro, come avveniva in epoca pre-fordista: ieri attraverso il ricorso alle botteghe artigiane ovvero al sistema del cottimo, oggi attraverso inedite forme di remunerazione del lavoro digitale “a consumo”, ingaggiato attraverso il modello dello spot contract. Per di più, l’intrinseca a-territorialità delle piattaforme digitali (un non-luogo telematico) rischia persino di negare alla prestazione resa dal crowdworker un ordinamento nazionale di riferimento.

    Anziché inseguire un’improbabile nozione giuridica unitaria delle molteplici forme di lavoro implicate nelle piattaforme, condivido la necessità, evidenziata da Tiziano Treu, di porre una base comune di protezione della persona che lavora, a cui potrebbero aggiungersi regole specifiche per i lavoratori digitali, all’esito di uno screening dei principali rischi sociali connessi alle nuove forme di lavoro. Ma anche nella prospettiva rimediale (come la chiama Treu), riaffiora la vecchia domanda: chi e come deve essere protetto? Insomma, anche il più piccolo frammento di tutela esige che si stabilisca quale sia il suo campo di applicazione (se non ci piace l’espressione «fattispecie»). Certo, non può più reggere la rigida dicotomia «o tutto o niente», insita nell’alternativa tra subordinazione e autonomia (già erosa da alcuni interventi regolativi).

    Di fronte all’ultimo lembo della rivoluzione tecnologica, a breve il centenario della nascita dell’International Labour organization (Ilo) ci ricorderà che oggi, come ieri, il lavoro non è una merce e ha bisogno di riconoscimento e protezione.


    Professore straordinario di Diritto del lavoro e direttore del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari Aldo Moro

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