Copiare può anche andar bene, ma lo si deve fare con intelligenza. Così è per l’iter immaginato per dare un governo al nostro paese. I Cinque Stelle copiano dalla Germania il contratto di governo e lo presentano come elemento risolutore che annulla qualsiasi sospetto di inciucio, perché costringerebbe a fare ogni accordo alla luce del sole.
Fosse così facile. Gli accordi di programma alla base delle coalizioni si sono sempre fatti, magari in modo meno pomposo e articolato, ma il tema ineludibile è che un governo non è una macchina che si limita a portare a termine i programmi sottoscritti. Al contrario è una istituzione, plurale e collettiva, che gestisce il susseguirsi di eventi, affronta i compiti di routine affidati ad ogni ministero, decide su innumerevoli incombenze. Neppure un contratto di diecimila pagine potrebbe prevedere tutte le variabili che questa attività comporta.
Di conseguenza diventano fondamentali la qualità dei ministri, la capacità di leadership e l’autorevolezza del presidente del consiglio e ancor più una sostanziale coesione di intenti. Se l’orizzonte di un governo fosse quello di tornare presto alle urne, vuoi per interesse dei suoi componenti vuoi per l’incontenibile pressione di un’opposizione molto forte sul piano dei numeri parlamentari, è difficile pensare che esso possa agire con efficacia e non finisca invece di essere un palcoscenico per spettacolarizzare i contrasti (per non dire le risse) fra le sue componenti (peraltro un deja vù).
Giustamente l’on. Di Maio ha puntualizzato di non immaginare un accordo di governo col Pd come una sconfessione reciproca delle rispettive identità e dei rispettivi passati (ma questo varrebbe anche per un accordo fra M5S e centrodestra). Però bisogna immaginare quale possa essere la nuova identità che si vuol dargli, perché, tanto per fare esempi banali, non è che fissando certi obiettivi questi diventino ipso facto raggiungibili: possono insorgere complicazioni (come un imprevisto insorgere di difficoltà economiche), possono presentarsi asprezze o crisi sul piano internazionale, si può dover far fronte a turbamenti dell’opinione pubblica per eventi di impatto sociale. E che farebbe in questo caso un governo retto su un contratto che in sostanza sarebbe una tregua armata e temporanea fra forze che dovranno poi rivendicare le loro incompatibilità alle non lontane elezioni?
Nel Pd si avanzano obiezioni simili e per superarle si butta lì un’altra scopiazzatura dalla Germania: facciamo votare sull’accordo i membri del partito. Anche qui ci si limita a giocare con le parole, perché i membri del partito sono ormai una minoranza rispetto agli elettori e rappresentano più che un corpo politico, una realtà che riunisce tradizionali appartenenze sociali (sempre più di età avanzata) e professionismo politico legato al correntismo erede di una “fusione fredda” e di tanti travagli precedenti. Suona più che altro come la ricerca di una via di fuga dei gruppi dirigenti o per sgravarsi della responsabilità di una scelta o per ammantare di “democrazia” il regolamento di conti fra loro.
Ciò che rende poco credibile il parallelo con il referendum interno della Spd è il fatto che lì non esisteva il contesto di un prossimo ricorso a nuove elezioni. È questo dato che da noi mette in difficoltà qualsiasi soluzione che ci porti fuori dall’impasse attuale: tutti, chi lavora per fare un governo e chi per impedirlo, hanno in mente una scadenza elettorale, comunque prossima. Il che significa, banalmente, che tutti lavorerebbero o per bloccare qualsiasi risultato o per intestarselo in esclusiva, cioè per avere un non-governo.
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