La Lega aveva chiesto ieri ai Cinque Stelle una dichiarazione pubblica, un segnale di distensione, uno sforzo per ammorbidire i toni verso Silvio Berlusconi e “accompagnare” al meglio il pressing ripartito con insistenza perché l’ex Cavaliere faccia decollare il governo giallo-verde. Luigi Di Maio, stamattina, ha raccolto l’invito: «Il nostro non è un veto su Berlusconi, è una volontà di dialogare con la Lega. Punto». Subito dopo, il leader M5S ha incontrato Matteo Salvini per dare un segno tangibile, dopo due mesi di messaggi e telefonate, dell’intesa che torna vicina. Dulcis in fundo, a completare il quadro, la comunicazione congiunta al Quirinale del confronto in corso.
Il capo politico del M5S, conversando con i cronisti alla Camera, ha spiegato di guardare al solo Carroccio per una questione “numerica”: «Vogliamo fare un governo che preveda due forze politiche e non quattro. Perché lo abbiamo visto cosa succede quando si fanno i governi a quattro o a cinque forze politiche. Nessun veto, dunque».
Dalla narrazione dimaiana scompare l’aggettivo «pregiudicato» usato tantissime volte dai pentastellati per definire Berlusconi e giustificare l’alta sedersi al tavolo con lui. Non è più il «male assoluto» come aveva detto Alessandro Di Battista appena l’11 aprile scorso? Di Maio colloca Berlusconi per la verità in fondo alla lista dei principali responsabili dello stallo e del voto anticipato: «Se ci pensate, tutte queste persone possono decidere di andare in una direzione o in un'altra; invece sia Renzi sia Salvini e di riflesso Martina hanno deciso di restare legati a Berlusconi. Facciano le loro scelte, io sono sempre stato onesto, con Berlusconi ci siamo sempre detti pubblicamente cosa pensavamo uno dell’altro, io sono stato anche invitato a pulire qualcosa a Mediaset...».
Non è una riabilitazione totale, ma serve a riconoscere «dignità» al presidente di Forza Italia, proprio come volevano i leghisti, Giancarlo Giorgetti in testa. Convinti che senza questo passaggio Berlusconi non potrebbe mai annunciare l’auspicato (da leghisti e da pentastellati, ma anche da tanti azzurri terrorizzati dal ritorno alle urne) passo di lato «per il bene del Paese», sotto forma non di sostegno esterno al governo M5S-Lega ma di «astensione critica». Forza Italia, secondo questo schema, non voterebbe la fiducia ma potrebbe sostenere i provvedimenti su cui è d’accordo, come la flat tax. E otterrebbe garanzie sulle aziende dell’ex Cavaliere e qualche ministro gradito. Una via d’uscita che avrebbe un altro vantaggio: non romperebbe la coalizione, condizione vitale per mantenere vive le alleanze nelle amministrazioni del Nord a guida centrodestra.
Se le dichiarazioni di Di Maio saranno servite a qualcosa si vedrà nelle prossime ore. Salvini è ottimista, deputati e senatori azzurri ripetono che «sarà Berlusconi ad annunciare la posizione del partito», ma nessuno dei big e dei peones si mette di traverso. Anzi. Ad Arcore le valutazioni procedono senza sosta. Fino a ieri sera, i costi del nulla osta alla nascita di un governo politico M5S-Lega erano ritenuti superare i benefici. Oggi la situazione sembra mutata. «Tutto dipende da Berlusconi», afferma Umberto Bossi, aggiungendo una verità che in Parlamento riconoscono tutti: «Non ha interesse a dire “no”». Soprattutto adesso che l’alternativa è il voto.
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