Torna nel vocabolario della politica italiana, come spesso accade in momenti di crisi istituzionali, la parola “impeachment”. Si tratta della messa sotto accusa del presidente della Repubblica, previsto all'articolo 90 della Costituzione, in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione. «Il Presidente della Repubblica - recita la Carta - non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri».
In Italia, c'è da dire, il verdetto finale non spetta neanche al Parlamento bensì alla Corte Costituzionale e mai, pur essendo stato più volte evocato - con Giovanni Leone, Francesco Cossiga e Giorgio Napolitano - ha visto completare il suo complicato percorso.
Ecco qual è:
1) Viene presentata - sostenuta da tutto il materiale probatorio - una richiesta di messa in stato d'accusa al presidente della Camera che poi trasmette il materiale ad un Comitato formato dai componenti della giunta per le autorizzazioni a Procedere di Senato e Camera.
2) Ove stabilita la legittimità dell'accusa dopo un verdetto votato a maggioranza, viene presentata una relazione al Parlamento riunito in seduta comune.
3) Il dossier a questo punto può essere archiviato o posto in votazione nell'Aula riunita sempre in seduta comune che deciderà sull'autorizzazione a procedere. 4) Nel caso in cui non siano avanzate richieste di ulteriori indagini, si apre la discussione sulla competenza parlamentare dei reati imputati. Se la relazione propone la messa in stato d'accusa, il voto è a scrutinio segreto e la destituzione scatta solo se si raggiunge la maggioranza assoluta.
5) La questione passa infine alla Corte Costituzionale che, coadiuvata da sedici giudici aggregati estratti a sorte, potrà - dopo un vero e proprio processo - emettere la sentenza inappellabile.
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