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Lo spread che sale e il deficit di credibilità

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mercati e politica

Lo spread che sale e il deficit di credibilità

Il problema fondamentale del nostro Paese oggi è la credibilità, non la solidità della sua struttura economica. La ripresa produttiva è un dato di fatto (anche se più anemica che nel resto d’Europa), le esportazioni superano le importazioni, il surplus di parte corrente con il resto del mondo (che include anche gli interessi pagati ai possessori di titoli esteri) ha raggiunto il 2,6% del Pil e le famiglie hanno una ricchezza finanziaria netta di 3,2 trilioni di euro.

Qualsiasi confronto con altri Paesi dell’area dell’euro che si sono trovati in crisi è del tutto improponibile sul piano elementare dei fondamentali economici.

Certo, abbiamo anche il debito pubblico più elevato fra i grandi Paesi d’Europa ma come si è dimostrato ampiamente in questi anni, mantenere in piedi questa montagna è essenzialmente un problema di fiducia da parte di chi ha investito nel nostro debito. Che è inutile demonizzare etichettandoli come biechi speculatori: non solo perché sono un dato di fatto della nostra situazione economica e politica, ma soprattutto perché la maggioranza è ancora composta dalle famiglie italiane, che detengono oltre 130 miliardi di titoli.

L’Italia e l’Europa hanno superato la grave crisi scoppiata nel 2009 quando la Grecia, quella sì, era sull’orlo della bancarotta. Si sarebbe certo potuto fare di più e meglio per intervenire sui problemi di fondo dell’euro.

Ma la costruzione a marce forzate dell’Unione bancaria e gli interventi della Bce a partire dal famoso impegno di Mario Draghi del luglio 2012 a fare «tutto il possibile» per salvare la moneta unica hanno riavviato la ripresa e messo in sicurezza un sistema bancario che ovunque (a cominciare da Francia e Germania) presentava preoccupanti elementi di fragilità.

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Da questo punto di vista la crisi passata ci ha insegnato che in Europa la stabilità delle finanze pubbliche è legata a doppio filo a quella delle banche (si parla di diabolic loop, circolo vizioso diabolico) e dunque occorre grande prudenza nel proporre misure e iniziative che possano far dubitare della sostenibilità del nostro debito: rischiamo di giocarci non solo la faccia, ma anche le banche, cioè un pezzo essenziale del nostro sistema produttivo.

I movimenti populisti non solo in Italia amano dare la colpa all’Europa perché la loro prima mossa è sempre quella di identificare il “cattivo” da combattere e non c’è niente di meglio che trovarlo lontano. Ma nessuno ha mai fatto davvero i conti con quello che dovremmo pagare se abbandonassimo la costruzione europea né sembrano averci insegnato qualcosa le tribolazioni dei cittadini britannici che si stanno pentendo amaramente di aver creduto a chi prometteva che “Brexit” avrebbe portato un radioso futuro di crescita e indipendenza. E soprattutto nessuno ci ha detto cosa succederebbe alla ricchezza finanziaria delle famiglie se il Paese uscendo dall’euro si gettasse in una spirale di svalutazione e inflazione come ai tempi pre-euro che qualcuno si ostina a considerare belli.

L’Italia cresce meno della media europea da oltre trent’anni e ha cominciato a far fatica a mantenere il passo degli altri ben prima che si avviasse la moneta unica. Il motivo di fondo di questo inquietante differenziale va individuato proprio nel fatto che ai problemi che soffocano il grande potenziale produttivo del Paese (la ricerca scientifica, l’efficienza della giustizia, la legalità, la lotta all’evasione, lo sviluppo delle imprese) sono state date risposte talvolta episodiche, spesso contradditorie, quasi sempre inefficaci.

L’esperienza di questi giorni ha dimostrato che l’impegno al rispetto dei patti europei non può limitarsi a un puro esercizio verbale, ma richiede politiche coerenti con i principi basilari che abbiamo sottoscritto. L’alternativa infatti è solo quella di accentuare il volto arcigno dell’Europa e di rafforzare la posizione degli oltranzisti del tant pis, tant mieux, che non aspettano altro che Paesi come l’Italia facciano un passo falso per metterli sotto il controllo della troika. Allora sì l’antieuropeismo diventerebbe plebiscitario.

Scongiurare questa eventualità richiede che i grandi Paesi, a cominciare dall’Italia mantengano comportamenti coerenti e si impegnino per riformare l’Europa rimediando alle carenze messe impietosamente a nudo dalla crisi.

Un esempio per tutti: in mancanza di un vero meccanismo di condivisione dei rischi finanziari (del debito pubblico e delle banche) il diabolic loop è sempre dietro l’angolo. Tecnicamente, ci sono molte strade per raggiungere questo obiettivo, come dimostrano fior di studi accademici, ma la condizione prima (necessaria ma, ahinoi, non sufficiente) e che tutti i Paesi, a cominciare dai grandi ovviamente, assumano impegni coerenti e credibili.

Il governo di Cottarelli ci porterà a nuove elezioni, ma sarebbe bene che potesse votare anche la legge di bilancio per dare sicurezza almeno nel breve termine. Altrimenti ci toccherebbe assistere non solo all’inedito di una campagna elettorale sotto l’ombrellone, ma anche al dramma già vissuto delle montagne russe dello spread. Uno scenario che il Paese non merita.

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