Nonostante lo spazio dedicato in campagna elettorale da molti partiti al delicato capitolo dei tagli alla spesa, la scadenza del 31 maggio, fissata dalla riforma del bilancio dello Stato per varare il Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) con gli eventuali nuovi obiettivi di spending review per i ministeri nei prossimi tre anni (da inserire poi nella legge di bilancio autunnale), non è stata rispettata.
Eppure la strategia per aprire la strada a nuovi tagli alla spesa sarà uno dei primi scogli che dovrà superare il governo gialloverde a guida Giuseppe Conte, sempreché ottenga il “via libera” del Quirinale. Anche perché il probabile decreto estivo cui dovrebbe ricorrere il nuovo esecutivo, con misure su centri per l’impiego, pensioni, taglia-leggi e, forse, immigrazione e fisco, non potrà prescindere da una nuova fase di spending review.
Non solo: il premier e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria (indicato da M5S e Lega) dovranno rapidamente mettersi al lavoro per definire il quadro programmatico del Def (da affiancare al Documento “tendenziale” targato Gentiloni) con cui fissare i nuovi obiettivi di riduzione della spesa per le amministrazioni centrali da inserire nella legge di bilancio autunnale.
Al momento il mancato rispetto della scadenza del 31 maggio, giorno in cui Carlo Cottarelli (uno degli ex commissari alla “spending”) rinuncia all’incarico conferitogli dal capo dello Stato per formare un esecutivo tecnico e neutrale, suona come una battuta a vuoto nel processo di revisione della spesa, peraltro quasi scontata vista l’assenza dall’inizio dell’anno di un governo nella pienezza dei suoi poteri. In mancanza del quadro programmatico del Def, passaggio obbligato per mettere nero su bianco il contributo delle amministrazioni centrali alla revisione della spesa, non è in ogni caso possibile varare l’eventuale Dpcm con cui ripartire tra i singoli ministeri i nuovi risparmi.
La Ragioneria generale dello stato sarebbe comunque pronta a far partire la “macchina” per approntare in non più di una ventina di giorni l’intervento sulla base delle indicazioni della Presidenza del consiglio e del ministero dell’Economia. Allo stato attuale i tecnici della Rgs restano impegnati sul versante della spending review solo sul monitoraggio riguardante la corretta attuazione del taglio strutturale da 1 miliardo l’anno ai ministeri per il triennio 2018-2020 prevista dall’ultima manovra sulla base delle indicazioni del Def dello scorso anno e del Dpcm varato nell’estate del 2017. Proprio ieri dalla Ragioneria è stata diramata una circolare per fornire chiarimenti e indicazioni sugli schemi per le informazioni e i dati da trasmettere alle scadenze fissate per il monitoraggio relativo al perseguimento degli obiettivi di riduzione di spessa fissati dall’ultima legge di bilancio.
Al momento, insomma, tutto fermo, o quasi. E gli stessi partiti, che ieri hanno lavorato all’affinamento della squadra di Governo per garantire a Giuseppe Conte una seconda concreta chance di formare un nuovo governo, da settimane non accendono più i riflettori sulla necessità di far ripartire il processo di revisione della spesa, malgrado nei loro programmi elettorali fossero stati indicati tagli a regime per 30-40 miliardi.
Il “contratto” gialloverde fa riferimento solo a generici tagli agli sprechi e a una stretta su vitalizi e costi delle istituzioni. Anche il riordino delle tax expenditures è accompagnato da un punto interrogativo a dispetto del costo complessivo degli interventi indicati nel “contratto” stimato da vari centri studi e osservatori in oltre 100 miliardi di euro, che non potrebbe mai essere coperto totalmente in deficit anche nell’eventualità di un braccio di ferro con la Ue. Il programma elettorale dei M5S prevedeva una “spending” a regime per almeno 30 miliardi accompagnata da un riordino delle tax expenditures da 40 miliardi. E molto simile su questi capitoli si presentava quello messo a punto dal Centrodestra (fino a 40 miliardi di revisione della spesa), anche se sui tagli la Lega si è mostrata sempre più prudente.
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