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Mostro di Firenze, da 50 anni nel nostro immaginario «nero»

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Indagini a una svolta

Mostro di Firenze, da 50 anni nel nostro immaginario «nero»

C'è ancora luce, quando l'ultima coppietta lascia il giardino delle Rose. Fine delle parole sussurrate tra i fiori, della magia del paesaggio, della complicità di un incontro furtivo. Di lasciare la città non se ne parla nemmeno. «Stasera da te?». «Ci sono i miei, ma mia mamma è più contenta se siamo chiusi in camera». Anche se loro non erano ancora nati quando il mostro terrorizzava Firenze, la storia dei killer delle coppiette continua a far parte anche della quotidianità delle nuove generazioni, attraverso le paure dei genitori, che erano ventenni quando, nelle notti senza luna tra il 1968 e il 1985, nelle campagne attorno al capoluogo toscano, si compirono otto duplici omicidi.

Le indagini svelarono un mondo di sevizie, perversioni ed esoterismo dietro la rassicurante cartolina delle dolci colline fiorentine. Un mondo su cui ancora oggi – dopo i processi a Pietro Pacciani e ai “compagni di merende”, secondo l'espressione di Mario Vanni, lo stesso ex postino di San Casciano e l'unico pentito Giancarlo Lotti, tutti ormai morti, come pure l'ultimo della banda Francesco Pucci – la Procura di Firenze continua a scavare, a partire da nuove piste, altri indagati – l'ex legionario Giampiero Vigilanti e il suo ex medico Francesco Caccamo –, più sofisticate tecnologie e vecchie intuizioni. Per cercare di capire «da dove arrivavano quelle ricchezze improvvise di Pacciani e Vanni? A chi porta il sangue sul fazzoletto, ritrovato sul luogo dell'ultimo duplice omicidio? Di chi era quella mano che con precisione chirurgica mutilò i corpi delle prime donne, in modo ben diverso da quanto avvenne negli anni successivi al 1981? Furono usate due armi?». Domande che ronzano nei pensieri dell'ex superpoliziotto divenuto scrittore Michele Giuttari, mentre guida il suo Suv verso il poggio degli Scopeti. E da qui, dove l'8 settembre 1985 avvenne l'ultimo duplice omicidio opera del mostro, ricomincia il racconto di Storiacce. Da qui dove per l'ultima volta sparò quella calibro 22 Winchester, usata forse da altre mani già nell'agosto 1968.

Ora i rovi sono bruciati, la vegetazione è meno folta, ma sembra di stare all'interno di un acquerello dalle alture di questa frazione di San Casciano, dove Nadine Mariot e Jean Michel Kraveichvili, due fidanzati francesi, piantarono la loro tenda in quel settembre di 33 anni fa. Qui furono mutilati e ammazzati, esattamente come le altre vittime. Con la stessa firma, nelle stesse notti senza luna. Ma in quest'ultimo duplice delitto, le tracce lasciate furono più numerose. E diventano ora tasselli per provare a dare le risposte mancanti sull'intero mistero, anche grazie a tecniche genetiche e balistiche che in Italia non esistevano tre decenni fa.

Ci sono i resti di un fuoco ora, dove il cane di una coppia di turisti dell'orrore ritrovò all'epoca un fazzoletto con tracce ematiche, tra i cespugli dove fu gettato e coperto il corpo di Jean, che aveva provato a fuggire. Quel sangue risultò del gruppo B, non quello delle vittime. Non quello di Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, morto vent'anni fa, prima che la sua vicenda giudiziaria finisse: condannato all'ergastolo, assolto in appello, ma poi la Cassazione annullò quella sentenza e dispose un nuovo dibattimento, che però non fu mai celebrato perché nel frattempo “il Vampa”, come era chiamato, morì in casa da cittadino libero. Negli anni delle prime indagini sul duplice omicidio degli Scopeti, Pacciani era l'unico indagato per i delitti del mostro e visto che quel sangue non poteva essere il suo, quel fazzoletto e quel paio di guanti da chirurgo misura sette, ritrovato sempre tra i rovi, finirono in secondo piano. «Ora, proprio su questo, dei passi in avanti si possono fare», è l'auspicio di chi ha guidato per anni la squadra antimostro, prima di lasciare la Questura, Firenze e poi l'Italia, dopo una stagione scandita da successi investigativi, ma anche da minacce, agguati – «come nemmeno ai tempi in cui mi occupavo dei sequestri di ‘ndrangheta», ricorda Giuttari – e pure da accuse poi cadute.

Quel fazzolettino assume tutt'altra importanza: è risultato dello stesso gruppo anche il sangue analizzato su uno straccio sequestrato nella casa di Salvatore Vinci, un sardo che avrebbe avuto contatti con l'ambiente di Vanni e Lotti, condannati per gli ultimi cinque delitti, in concorso con il presunto capobanda, Pacciani, deceduto di fatto da innocente. Di quello straccio da tempo non si hanno più notizie, dopo che fu portato in Inghilterra per analisi. Così come è sparito lo stesso Vinci, dato per morto in Spagna, senza che mai fosse trovato il corpo. Una delle scomparse misteriose di persone e reperti, entrati in contatto con questa storia. In questa direzione vanno anche le nuove indagini, coordinate dal procuratore aggiunto fiorentino Luca Turco (dopo la scadenza del mandato dello storico pm Paolo Canessa), che hanno portato all'iscrizione nel registro degli indagati di un ex legionario di 87 anni, Vigilanti, originario di Vicchio, lo stesso paese in cui era nato Pacciani, il Vampa, per quelle gote rosse che riempivano gli schermi delle tv negli anni in cui l'Italia intera seguiva i processi a lui e ai compagni di merende, dividendosi sulla colpevolezza o meno di questo contadino dalle mani rozze, con un passato in carcere per l'uccisione dell'amante della fidanzata e lunghi anni di abusi sulle figlie. Il contadino nato in una «famiglia così povera che la madre doveva chiedere il sussidio al Comune, per raggranellare i soldi del bus per andare a trovarlo in carcere. E poi all'improvviso, compra la casa di Mercatale e investe quasi 150 milioni di vecchie lire in buoni del tesoro, sparsi in più uffici postali, perché in paese non sapessero troppo delle sue ricchezze», ripercorre Giuttari, il primo a non credere all'ipotesi del killer solitario. Ricchezze apparse negli anni dei delitti, come fu ricostruito nel processo a Lotti e Vanni, che a sua volta girava con i «rotoloni di contanti», raccontarono i testimoni. Da dove arrivavano quei soldi? Le indagini non lo stabilirono, ma le motivazioni delle sentenze furono chiare nell'indicare questa direzione come traccia per provare a identificare quel “dottore” di cui parlava l'unico che collaborò alle indagini, Lotti, “il katanga” le cui dichiarazioni, confermate anche dal terzo della banda, Francesco Pucci, trovarono più riscontri: pagava Pacciani, per avere gli organi e le parti scisse dei corpi delle donne uccise? Ma quelle indagini sui mandanti, che si allargarono a Perugia dopo che fu accertata la morte per strangolamento di Francesco Narducci, si arenarono, tra intimidazioni, scontri tra uffici giudiziari, indagini sugli inquirenti e ostruzioni di ogni genere.

Anni dopo, nel 2013, l'esposto dell'avvocato Vieri Adriani, difensore dei familiari delle ultime vittime francesi, è stato cruciale nella riapertura delle indagini, che riprendono ora ipotesi investigative valutate già dal Gides, il gruppo delitti seriali. Come la possibilità che a sparare non sia stata solo la famosa Beretta calibro 22 marca Winchester, i cui bossoli, per la prima volta, furono ritrovati nel duplice omicidio del 21 agosto 1968, ma caso mai anche un revolver che non espelle i bossoli. E questo potrebbe spiegare perché se ne siano trovati sempre meno.

È «una di quelle risposte, che i genitori ancora vivi aspettano di avere sulla fine dei loro figli», sospira Giuttari. Ora segue solo a distanza le indagini, ma il suo sembra un impegno preso anni fa con Renzo Rontini, padre di Pia, uccisa nel 1984 con il fidanzato Claudio Stefanacci, quando lo vide a terra stroncato da un infarto mentre andava in Questura. Una promessa a lui, raccolta dagli altri inquirenti, come ai genitori di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore; Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi; Susanna Cambi e Stefano Baldi; Antonella Migliorini e Paolo Mainardi; Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. Tutte vittime del mostro, dei suoi compagni di merende e di quei mandanti fino a ora mai individuati. Per Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, ammazzati nella loro Giulietta bianca nell'estate di 50 anni fa, in realtà è stato condannato il marito della donna, Stefano Mele, ma allora per la prima volta furono repertati bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester, con la lettera H sul fondello, come in tutti gli altri delitti del serial killer, che dal 1974 al 1985 terrorizzò le campagne fiorentine. E una calibro 22 possedeva, prima che a suo dire gli fosse rubata con altre armi, anche l'ex legionario Vigilanti, indagato nella nuova inchiesta, dopo essere stato già in passato sotto l'attenzione degli investigatori per una serie di indizi che lo misero in contatto con Pacciani e con i luoghi di alcuni delitti.

Le indagini erano tutte orientate alla ricerca di un solo maniaco e non di un gruppo e di una regia. Nel 2013, la prima perquisizione a suo carico, poi da testimone controverso, Vigilanti, che tira in ballo il suo ex medico di famiglia Francesco Caccamo dalle frequentazioni massoniche, diventa indagato. Un contadino semianalfabeta, un postino, medici, farmacisti, maghi e prostitute, fino ad ex legionari e da ultimo pare anche un ex militare americano coinvolto oltreoceano in altri delitti seriali: di tutto è finito all'interno della storia giudiziaria del mostro di Firenze, lunga ormai mezzo secolo. E ancora aperta. Sia nelle indagini, sia nelle paure di chi fu giovane in quelle notti senza luna di tanto tempo fa.

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