Se il primo atto (per decreto) del “governo del cambiamento” si segnala per un tuffo nel passato, vuol dire che sono troppi i conti, anche politici, che non tornano. A tal punto che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si affretta a dichiarare che “ovviamente il Governo non è in contrasto con il mondo imprenditoriale”, mentre il suo vice nonché ministro dello Sviluppo e del Lavoro, Luigi Di Maio, preannuncia che con la prossima legge di bilancio verranno tagliati i costi del lavoro.
Forse il decreto che a partire dai contratti a termine, al di là della lodevole intenzione di combattere la precarietà, finisce per reintrodurre vincoli e costi all'insegna del ritorno a un’idea novecentesca di un mercato del lavoro bloccato è scivolato un po' oltre le intenzioni iniziali dei proponenti? Forse durante la preparazione dei testi ci si è dimenticati che la campagna elettorale era finita assieme ai suoi innumerevoli slogan e che governare significa anche ascoltare chi per mestiere fa impresa sul campo? Qualcuno si è distratto? Perché l’altro vice premier, il ministro dell’Interno nonché leader della Lega, Matteo Salvini, ha disertato il primo Consiglio dei ministri del “governo del cambiamento” preferendo il Palio di Siena?
Fatto è che il danno è fatto e, come è stato notato, con queste misure avremo più cause legali che occupati, in un Paese che si ritrova improvvisamente meno attrattivo. Mentre il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, a proposito di svolte e cambiamenti, ha un’idea esplosiva al contrario: discontinuità significa non far saltare i conti.
Naturalmente ci può essere tempo e modo per correggere un passo d’avvio più anti-storico che storico. Basta confrontarsi con la realtà ed avere come orizzonte un Paese che cambia, sì, ma in meglio e non in peggio.
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