«Io penso che noi dobbiamo dialogare certamente con i 5 Stelle, perché questo dialogo è utile al Paese. Con la Lega non ci sono le condizioni per un dialogo vero, sui provvedimenti. Con i 5 Stelle ci potrebbero essere». Se financo un uomo storicamente vicino a Matteo Renzi come il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio apre al dialogo con il Movimento 5 stelle non ci sono più dubbi sul fatto che il partito della “trattativa per il bene del Paese” sia nelle ultime settimane molto cresciuto tra i dem. E sarà proprio questo – il rapporto con il partito arrivato primo alle elezioni del 4 marzo, se di confronto o di alternativa tout court – uno dei temi centrali del prossimo congresso. Come fa intendere da settimane lo stesso Renzi, che sabato scorso nel suo discorso pugnace all'assemblea del partito ha rivendicato con forza l'aver bloccato il tentativo di una parte dei dem, Dario Franceschini in testa, di dar vita a un governo giallo-rosso durante le settimane delle consultazioni al Quirinale. «Vogliono fare il congresso sull'accordo con i 5stelle? Bene, ci sono due linee nel Pd, la nostra e la loro. Sarà un congresso bello tosto», si è sfogato l’ex leader con i suoi dopo aver letto le ultime dichiarazioni di vari suoi compagni di partito.
È stato sempre Franceschini a rilanciare negli ultimi giorni il tema: impedire il confronto con i pentastellati per la formazione del governo - è il ragionamento dell'ex ministro della Cultura, che politicamente viene dalla Margherita - è stato un grande errore che ha finito per consegnare il Paese a un pericoloso governo di destra populista e antieuropea egemonizzato dalla Lega di Salvini. Occorre invece spezzare l’asse tra i due partiti della maggioranza dialogando sui temi concreti con il M5S, votato anche da molti elettori ex Pd, in modo da creare le base per una futura alleanza. Tra i dirigenti del Pd Franceschini, assieme all'ultimo segretario dei Ds Piero Fassino, è stato quello che più si è spinto per l'asse con i 5 stelle. Ma il ragionamento è nella sostanza condiviso anche da altri - compreso l’ex premier Paolo Gentiloni, così come l’attuale segretario Maurizio Martina e il candidato anti-renziano al prossimo congresso Nicola Zingaretti - e parte da un dato di realtà: in un sistema ormai fondamentalmente proporzionale l'autosufficienza del Pd, anche immaginando una coalizione di centrosinistra più larga, è un’utopia e l’alleanza con uno degli altri due poli in campo è necessaria per tornare al governo. La strategia del Pd deve essere quindi quella di rompere l’asse M5S-Lega, evitando che si riproponga anche alle prossime politiche, con l'obiettivo di isolare infine la Lega di Salvini.
Opposto, come è noto, lo schema di Renzi (e di Carlo Calenda): la contrapposizione ai due diversi populismi deve essere totale, in modo da coagulare attorno al Pd una sorta di fronte democratico ed europeista alternativo al governo giallo-verde. Un fronte che abbia tra i suoi alleati e punti di riferimento il presidente francese Emmanuel Macron fin dalle prossime elezioni europee del 2019. Renzi e i suoi, insomma, sono convinti che la propensione del M5S sia strutturalmente di destra e antidemocratica, e che quindi l'incontro dei due diversi populismi oggi al governo non sia transitorio.
Entrambe le linee sulle alleanze sono naturalmente legittime. Ma va anche segnalato che attraverso la linea della “trattativa con il M5S per il bene Paese” passa la principale leva che il Pd ha a disposizione per superare l'ingombrante figura di Renzi ed allentare la forte presa che l'ex leader ha ancora sul partito, sulla base e sui gruppi parlamentari. Proprio per questo la polemica sul mancato governo giallo-rosso e sul rapporto con il M5S e il suo elettorato rischia di tenere in ombra la vera divisione che corre nel Pd, e non da oggi. Superare il “renzismo” vuol dire andare dove? Tornare a una sinistra tradizionale, novecentesca, o mantenere dritta la barra del riformismo? Non a caso Renzi nel suo discorso di sabato scorso all'assemblea del partito ha citato tra le contestazioni di una parte della platea Tony Blair, mentre il leader della minoranza di sinistra Andrea Orlando fa riferimento all'attuale leader del Labour Jeremy Corbyn.
Un esempio di questa divaricazione latente all’interno del composito e sempre più folto “correntone” antirenziano sono i distinguo delle ultime ore in merito all'atteggiamento da tenere in Parlamento sul decreto dignità presentato dal leader pentastellato e ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Per la minoranza, da Orlando a Gianni Cuperlo, dall'ex ministro del Lavoro Cesare Damiano a Francesco Boccia, il decreto di Di Maio «va nella giusta direzione» nella parte che riguarda la stretta sui contratti a termine. «Noi dobbiamo fare da sponda al M5S quando vuole fare cose di sinistra, non possiamo non appoggiare misure contro il precariato. E su questi temi sociali dobbiamo staccarli dalla Lega», ragiona Orlando. Costringendo lo stesso segretario Martina a precisare che un conto è il dialogo con il M5S e un conto è il voto favorevole a un decreto che non risolve i problemi del precariato e penalizza le piccole e medie imprese: «Per i contenuti annunciati il decreto non è votabile».
Decreto dignità a parte, il nodo è più ampio: un partito della sinistra riformista che ambisce a tornare al governo può fare dello smontaggio del jobs act una bandiera, magari caldeggiando la reintroduzione dell'articolo 18 per i neo assunti come fanno gli scissionisti di Leu, da Massimo D'Alema a Roberto Speranza? E' questa la piattaforma programmatica del “correntone” che intende legittimamente superare il renzismo, da Gentiloni a Delrio a Franceschini? Difficile crederlo, conoscendo la storia e la provenienza di questi dirigenti. Diverso è andare incontro al bisogno di sicurezza espresso dagli italiani con il voto del 4 marzo rafforzando, come proposto nei giorni scorsi da Martina e rilanciato da Gentiloni, il reddito di inclusione già in vigore. Così come va in una giusta direzione la proposta dem di riduzione del peso fiscale sulle famiglie, anche nell'ottica di rilancio dei consumi, naturalmente facendo attenzione alla tenuta dei conti pubblici.
Il rischio è insomma che l’ansia di superare l’era Renzi, magari nell’illusione di archiviare troppo velocemente una sconfitta elettorale che coinvolge tutto un gruppo dirigente, possa schiacciare le posizioni dei riformisti del Pd su quelle della sinistra corbyniana che si sta raccogliendo attorno alla candidatura di Zingaretti. Dimenticando tra l'altro che le ultime elezioni hanno dimostrato ancora una volta, con il deludente risultato di Leu, che lo spazio elettorale per tale sinistra tradizionale è ormai molto ridotto nel nostro Paese.
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