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Decreto lavoro, scatta la «stretta» sulle imprese, a rischio subito 80mila contratti

Prima vera spallata al Jobs act, con la riscrittura del decreto Poletti, che nel 2014 aveva liberalizzato i contratti a termine per tutti i 36 mesi di durata, e una iniziale scalfitura al nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con l’incremento del 50% degli indennizzi monetari, minimo e massimo, in caso di licenziamento illegittimo, che dagli attuali 4 e 24 mensilità passano ora a 6 e 36 mensilità.

Con la pubblicazione ieri in Gazzetta ufficiale, 161, del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, scatta, da oggi, la stretta sulle imprese. Il contratto a termine “libero” potrà essere sottoscritto fino a 12 mesi; dopo si ripristinano le causali, vale a dire le ragioni che giustificano il ricorso da parte del datore a un rapporto a tempo determinato. In questi casi, si potrà attivare un contratto a termine solo per due motivazioni, cioè per «esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; oppure per necessità «temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria, o per esigenze sostitutive di altri lavoratori» (come nel caso, per esempio, di ferie o malattie).

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Non solo. La durata complessiva di un rapporto a termine scende da 36 a 24 mesi, sono ammesse quattro proroghe (finora, cinque), e «in occasione di ciascun rinnovo», anche in somministrazione, scatta un incremento contributivo di 0,5 punti percentuali, in aggiunta all’1,4% già previsto, dal 2012, dalla legge Fornero, e utilizzato per finanziare la Naspi (l’indennità di disoccupazione). Il giro di vite si estende pure al rapporto di impiego a tempo che lega agenzia per il lavoro privata (Apl) e lavoratore somministrato (lo staff leasing non viene invece toccato, come neppure, al momento, il contratto commerciale, tra risorsa e impresa utilizzatrice).

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La stretta si applica a tutti i contratti di nuova sottoscrizione, ma anche a quelli in corso, seppur limitatamente a proroghe e rinnovi. La relazione tecnica al Dl stima, da subito, un impatto negativo sull’occupazione: in base a dati forniti dal ministero del Lavoro, infatti, su circa due milioni di contratti a termine attivati l’anno (al netto di stagionali, agricoli e Pa) il 4%, pari a 80mila rapporti, supera la durata effettiva di 24 mesi, e pertanto, da oggi, si pone in contrasto con le nuove previsioni (il 10% di questi 80mila, cioè 8mila, addirittura si considera che perderanno il posto ogni anno, fino al 2028).

Il decreto Conte, che sarà incardinato ufficialmente nelle commissioni Lavoro e Bilancio della Camera lunedì, allunga anche i termini, da 120 a 180 giorni, per impugnare un contratto a tempo; e conferma l’esclusione dalle nuove regole dei rapporti a termine stipulati dalla pubblica amministrazione, ai quali, pertanto, continueranno ad applicarsi le attuali disposizioni («un’altra occasione persa per equiparare i due regimi, che restano così differenziati, anche sotto il profilo sanzionatorio», commenta Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna).

L’ultima versione del provvedimento salva, invece, i contratti per attività stagionali, con l’inserimento di una modifica specifica: a loro non si applicheranno le causali, neppure per proroghe e rinnovi (in pratica, rimane tutto com’è).

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Per gli esperti le nuove regole rischiano, concretamente, di disorientare le aziende, aprendo a incertezze applicative e la possibile ripresa di contenziosi (più che dimezzati con il decreto Poletti). «L’obiettivo di contrastare il precariato è condivisibile - afferma Riccardo Del Punta, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Firenze -. Il giro di vite sulla somministrazione è però sbagliato perché si colpisce un istituto di flessibilità buona. Il ripristino poi delle causali non è la soluzione, visto che storicamente non hanno mai prodotto il risultato atteso». Gli effetti, purtroppo, saranno altri: «I lavoratori occupati a termine già da 12 mesi difficilmente verranno stabilizzati o riassunti a tempo determinato - spiega Arturo Maresca, ordinario di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma -. Cosa lo impedisce? Proprio il ritorno delle causali».

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