«Ero al Cern di Ginevra quando ho saputo del crollo del ponte Morandi ed è stato un colpo micidiale, l’affacciarsi del lutto nello scenario di una città ferita in questi ultimi anni da una sequenza di drammi allarmanti. Le alluvioni del 2011 e del 2014, poi, nel 2013, il crollo della “torre dei Piloti” investita da una manovra azzardata del “Jolly Nero” dove persero la vita nove persone: e ora questa tragedia inaudita del crollo del pilone centrale del Ponte sul Polcevera dove il conto delle vittime lascia attoniti e disperati».
Renzo Piano è in montagna, nella casa studio dove si rifugia d’agosto per dare la carica ai suoi pensieri e organizzare la strategia dei suoi tanti impegni nel mondo. L’abbiamo raggiunto per una riflessione sul dramma della sua amata città, che resta sempre al cuore dei suoi pensieri perché, prima ancora che cittadino del mondo, Piano si sente orgogliosamente e, come dice, disperatamente genovese.
«Genova è detta la Superba, ma l’appellativo non si riferisce all’idea di una vanagloriosa superiorità: è superba perché “superiore”, perché sale verso l’alto ed ha sempre avuto una capacità di reazione straordinaria: ora è ferita, addirittura bastonata, ma non rinuncia alla speranza. Dalle prime reazioni sento la voglia disperata di una rivincita contro calamità ed errori: Genova capisce che deve rimettersi in gioco, recuperare la capacità di riprogettare il futuro capitalizzando anche gli sbagli, le disattenzioni e il fatalismo che hanno preso vigore in questa nostra Italia, smentendo la nostra naturale propensione al fare e all’eccellenza del fare».
Crede anche lei che, come si comincia a dire, il famoso Ponte dell’ingegner Morandi – una delle glorie dell’ingegneria italiana del Novecento - sia da considerarsi uno di questi errori?
Morandi è stato, con Nervi, uno dei vanti dell’ingegneria italiana nel mondo e il suo Ponte era diventato un’icona dello spirito di innovazione del nostro Paese. Quando venne eretto il Ponte, da giovane architetto che negli anni Sessanta cominciava la professione, l’ho ammirato per la sua audacia: in quegli anni – i quasi quindici anni in cui si è prolungato il nostro dopoguerra - Morandi costruiva con l’entusiasmo di quei tempi... È presto ora per indicare con esattezza se le cause del cedimento siano imputabili all’audacia della progettazione o a difetti di cura. Ma certamente l’opera esprimeva la volontà di spingere l’Italia nella direzione di un grande ottimismo, senza il quale non ci sarebbe stato il miracolo della ripresa. Quella bellezza però era fragile, appunto: bisognosa di un'attenzione di una cura di cui nel tempo abbiamo perso la consuetudine. Curare una creatura come questa implica una sapienza diagnostica corrispondente alla complessità dell’oggetto. E questo significa che bisogna passare dall’opinione all'oggettiva conoscenza. Escludo categoricamente l’idea della fatalità... I ponti non crollano. Un ponte crolla solo per un bombardamento in guerra o per un attentato.
Quindi il crollo del Ponte Morandi è in un certo senso il crollo del sistema Italia?
No, mi auguro anzi che ci sia una risposta adeguata a fronteggiare il futuro senza indugiare a criticare o rimpiangere il passato. Ma certamente voglio dire con chiarezza che a volte mi sembra che nel nostro paese si è spenta la fiaccola della scienza, la sua luminosa e confortante pretesa di sapere quello che si sa e ammettere di non sapere quello che non si sa, senza far finta di sapere sempre tutto. Dobbiamo ristabilire il valore della precisione scientifica, la pretesa della scienza di andare a fondo delle cose senza seguire il terreno dell’opinione.
L’opinionismo è il contrario della razionalità della scienza, della responsabilità di scelte ponderate a lungo e perseguite con tenacia. Per questo il lutto di questa tragedia è triplice.
Pensa alle vittime e ai danni alla struttura urbanistica di Genova?
Sì, certo: alle vittime innanzitutto, a quell’innocenza rubata a chi andava in vacanza, a chi andava a lavorare e a chi stava al sicuro nella propria casa. Un destino ingiusto, intollerabile. Poi a Genova: un ponte come questo, crollando, trascina con sé il morale della città. Il Ponte sul Polcevera non era un ponte qualsiasi: univa le due anime di Genova: la città storica di Levante con l’anima operaia e industriale di Ponente, dove tra l’altro io stesso sono nato e vissuto. E infine il crollo del ponte Morandi si porta appresso la credibilità e l'identità stessa dell'Italia.
Cosa bisognerebbe fare subito per evitare che le macerie diventino la metafora anche all'estero di un città che per la sua posizione ha un ruolo strategico nei flussi di persone e di merci, il ruolo di frontiera tra noi e l’Europa?
Di un nuovo ponte Genova ha bisogno subito, come ha però bisogno di ripensare in una nuova visione il tema delle infrastrutture e della movimentazione. Sotto il ponte passa il sistema ferroviario, rendendo necessario un progetto urbanistico e ambientale moderno e coraggioso. Molti ignorano o hanno dimenticato che cos’è il porto di Genova: una fabbrica straordinaria che dà identità, benessere e orgoglio. Una fabbrica nel cuore della città: sbarrata dai monti alle spalle, Genova è cresciuta linearmente seguendo la costa: una città estesa e il porto sta nel mezzo. Come può sopravvivere privo di connessioni? Il porto produce ricchezza non solo per la città ma per l’Italia: dunque è un'infrastruttura strategica per il sistema nazionale e come tale richiede un impegno dello stato forte e indirizzato. Bisogna dunque pensare a un insieme coordinato di proposte che affianchino, ad esempio, alla proposta della Gronda Nord, un nuovo trasporto per acqua dal centro a Voltri, a Pra, ecc. Bisognerà realizzare una metropolitana di superficie lunga quanta tutta la città sul mare, utilizzando le circa venti stazioni storiche da Voltri a Nervi. Che già esistono e sono ancora in funzione, per la lunghezza di una ventina di chilometri Le stazioni di Voltri, di Pegli, di Cornigliano, di Pra, ecc. costituiscono già un sistema metropolitano che allevierebbe l'entroterra dal peso di un traffico su gomma sempre più insostenibile.
Dunque, il cantiere come risposta alle macerie dei crolli? E come ha scritto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia sul Sole 24 Ore: «Lavorare uniti per le soluzioni».
Sì, il cantiere, come il ponte, unisce nella speranza della costruzione. Il cantiere è metafora di unione, di collaborazione, di coesione di sforzi sincronizzati a realizzare qualcosa che non esiste ma che renderà la vita migliore. Nel cantiere – e a Berlino sono arrivato a coordinare quasi cinquemila operai – spariscono le differenze, si valorizzano le competenze ( ricordo a Londra, nello Shard, i minatori che lavoravano agli scavi sotto terra e agli alpinisti sospesi ai cavi per montare le lastre di vetro delle facciate), si sviluppa l'orgoglio di fare bene assieme. Genova deve reagire al crollo con nuovi cantieri e con idee per il futuro, ad esempio e innanzitutto, riconquistando l’acqua alla città. Sta per partire a dicembre il progetto Waterfront che si propone di ridefinire l’affaccio di Genova sul mare , decementificando tutto quello che appartiene a un passato ormai inservibile e ostile: riconquistare il rapporto con l’acqua a valle significa smettere di crescere verso l’alto.
E quindi riprogettare il sistema idrogeologico, dovuto anche alla deforestazione e alla cementificazione selvaggia, che tanti lutti ha portato alla nostra città. Basta crescere per estensione e addizione: puntare invece sull’inclusione e sulla trasformazione, usando le aree dismesse industriali, ferroviarie e portuali. Perché il destino di Genova è disegnato sull'acqua.
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