Italia

Un motivo in più per non cadere nella tentazione statalista

  • Abbonati
  • Accedi
tra stato e mercato

Un motivo in più per non cadere nella tentazione statalista

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Ogni volta che nasce un problema che riguarda grandi imprese, il governo sembra avere una ricetta sicura: togliere l’azienda ai privati e portarla (o riportarla) in mani pubbliche. Che si tratti di una crisi che ormai non fa più notizia come quella di Alitalia o della tragedia di Genova, la conclusione è una sola: meglio lo Stato del mercato. Una ricetta facile e che ha facile presa nel tam-tam dei social, ma che non è affatto la soluzione corretta ai problemi reali.

Prima di tutto perché l’ondata di privatizzazioni italiane degli anni Novanta (che ha superato tutti i record dei paesi industrializzati, compresa la Gran Bretagna della signora Thatcher) è stata fatta sotto l’assillo di un debito pubblico diventato insostenibile e che era fra le cause della crisi della lira nel 1992. Riteniamo davvero sia possibile tornare indietro adesso che è cresciuto ulteriormente?

Ma non è solo una questione di vincolo di bilancio. Le privatizzazioni in Italia non avevano alla base l’ideologia britannica degli anni Ottanta secondo cui il mercato è sempre meglio del pubblico, ma la certezza che si era guastato l’equilibrio fra impresa pubblica e politica. L’Iri ha avuto meriti enormi nello sviluppo industriale del paese, ma è entrato in crisi quando i governi hanno cominciato a non rispettare l’autonomia dei manager. Alitalia ha perso posizioni fra le compagnie di bandiera per un complesso intreccio politico-sindacale che ha fatto lievitare i costi e boicottato le ipotesi di alleanze. Nel settore bancario avevamo banche pubbliche d’avanguardia, come Comit o Imi, ma altre (in pratica l’intero sistema bancario meridionale) entrarono in crisi perché si erano messe al servizio della peggior politica assistenzialista. Insomma il mondo delle imprese pubbliche sparito con le nazionalizzazioni non merita tanta nostalgia. Del resto, come si documenta nell’inchiesta a fianco, le imprese private italiane rappresentano una realtà produttiva importante che genera occupazione, profitti, dividendi per gli azionisti e imposte per le casse statali.

Certo, molte cose non hanno funzionato nella privatizzazione e richiedono un intervento deciso. Ma non è necessario togliere la proprietà ai privati. Proprio perché la maggior parte delle imprese nazionalizzate sono public utilities, che agiscono in condizioni di monopolio o quasi, occorrono meccanismi di controllo e vigilanza efficaci. In troppi settori le autorità amministrative indipendenti sono state depotenziate o abbandonate a una deriva burocratica e formalistica. Nel caso delle autostrade l’opinione pubblica ha preso coscienza solo in questi giorni del fatto che rimangono segreti particolari essenziali delle concessioni. Non è un dettaglio: è la prova che ci sono sicuramente difetti nel modo in cui hanno operato le imprese privatizzate, non nel passaggio della proprietà in sé. In altre parole, quello di cui abbiamo bisogno è un sistema di controlli che prevenga e corregga gli inevitabili problemi che nascono dall’attività economica, nel convincimento che tanto l’impresa pubblica quanto privata possono portare a inefficienze. Andare in questa direzione ha certamente un impatto mediatico inferiore rispetto a misure draconiane (i cui tempi di realizzazione sono tutti da vedere) ma è la via maestra da seguire e non a caso era quella che avevano in mente i governi Prodi o Ciampi che hanno gestito la maggior parte delle privatizzazioni: basta vedere le nomine fatte in regolatori importanti come Antitrust, Consob e autorità per l’energia e la distanza di braccio che separava quegli organismi dalla politica di allora.

Insomma. Nazionalizzare? No, grazie. Questo vecchio slogan degli antinuclearisti, sicuramente caro a buona parte dell’attuale maggioranza di governo, sembra la risposta migliore alla tentazione massimalista di questi giorni.

© Riproduzione riservata