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Un Paese che «vive» di disuguaglianza

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le vere sfide

Un Paese che «vive» di disuguaglianza

Mentre i marosi finanziari si fanno sempre più minacciosi, con lo spread che viaggia oltre i 270 punti, il governo del cambiamento non sembra avere grandi idee per il Paese, per affrontarne le problematiche vive. Si straparla di sbarchi d’immigrati, ma niente, a esempio, sulla crescita delle disuguaglianze socioeconomiche: come e con quali rimedi possiamo cercare di invertirla. Tema caro, a parole, alla politica e al M5S in particolare, è diventato più impervio, perché a spingere la crescita delle disuguaglianze negli ultimi vent’anni non sono stati solo i due storici divari di genere e tra Nord e Sud (che sono ordinariamente peggiorati), ma l’acutizzarsi di tre dinamiche sociali involutive, inattese a inizio secolo.

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L’aumento della povertà, dopo il 2008, ha contribuito ad accrescere la disparità tra il 20% più ricco e il 20% disagiato, in termini di ricchezza, redditi e consumo. C’è chi va a gonfie vele e chi rischia di finire sugli scogli. La povertà assoluta richiede reddito di sostegno e servizi sociali efficienti, anche perché presenta situazioni che rendono poco probabile un inserimento lavorativo a breve, al contrario, possibile tra i soggetti in povertà relativa. La metà di questi sono giovani, 1 su 4 sono immigrati legalmente residenti e, poi, famiglie di ceto medio-basso alle quali non bastano le “acrobazie” per arrivare a fine mese. Il contrasto alla povertà relativa richiederebbe risorse pubbliche ingenti per integrare reddito, potenziare e innovare i sistemi formativi e i servizi all'impiego. Un sistema di flexicurity e di mercati del lavoro ben organizzati in funzione di sviluppo aumenterebbe il lavoro e ridurrebbe le povertà.

A spingere la disuguaglianza, c’è inoltre il peggioramento di status di una parte consistente del ceto medio-basso: una sorta di sua “proletarizzazione”, a due secoli esatti dalla nascita di Marx, che l’aveva annunciata. Più realisticamente, il tramonto dell’ordine sociale novecentesco, «l’epoca dell’uguaglianza» (R. Pomfret, 2011): con cedimenti del lavoro impiegatizio e del ceto micro-imprenditoriale, che hanno registrato una riduzione di reddito, dall’ingresso nell’euro a oggi. Sta invecchiando anche l’operaio di grandi impianti produttivi “ceto-medizzato” come il travet. La globalizzazione a trazione tecnologica e migratoria ha sconvolto i mercati esterni e interni del lavoro, rendendo inattuali le vecchie certezze e le relative garanzie ancora detenute da ampie fasce di ceto medio-basso dipendente, il cui lavoro routinario è in via di “dimensionamento” tecnologico e produttivo.

La faglia apertasi tra ceti medio alti e medio bassi sta sgretolando l’architrave che li teneva uniti e assicurava stabilità politica e democratica. La società di ceto medio è finita, almeno come la intendevamo: una prateria di benessere diffuso, accessoria al mercato e solcata da politiche statali. Al tempo delle società liquide e individualizzate, non è facile immaginarsi qualcosa d’analogo a quell’architrave, oggi malandata, che è stato il ceto medio. Certo, però, dall’entrata nell’euro, il reddito mediano italiano ha fatto registrare un andamento tra i più deludenti in Europa e non ha recuperato completamente livelli pre-crisi. Questa è la china da risalire, grazie a produttività, tecnologia e crescita: un futuro in cui ci sia industria 4.0 e anche servizi pubblici e privati 4.0. In questi incastri digitali prenderà forma il “corpaccione” del futuro ordine sociale.

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Il terzo fenomeno che spinge la disuguaglianza in Italia è il divario generazionale. È tanto acuminato che l’intero Paese dovrebbe “andare in analisi” per spiegare perché, nonostante i nostri giovani siano in minor numero e più istruiti che in passato, ci ostiniamo a lasciarli senza lavoro, a vederne emigrare a migliaia ogni anno - da anni -, a trattarli nel lavoro con paghe che sottostimano crediti e meriti. Il divario generazionale si sostanzia nella forbice di reddito tra over 60 e under 30, esplosa da inizio secolo a oggi. Il suo storytelling racconta di neet nullafacenti, d’invecchiamento dell’occupazione, d’insider anziani e giovani outsider, di diaspora all’estero di giovani talenti, di spreco di risorse umane. Narra di marginalità di giovani impantanati in una disoccupazione tra le più elevate d’Europa. I giovani dovrebbero essere l’altro piedritto che sorreggere l’architrave sociale a garanzia della stabilità del Paese: ma le élite al governo dovrebbero intervenire su sistema educativo, inserimento lavorativo e condivisione di responsabilità tra generazioni, con misure in sintonia con lo spessore tecnologico delle nostre economie e società.

Per il governo del cambiamento c’è solo l’imbarazzo della scelta delle problematiche socioeconomiche d’affrontare. Il loro miglioramento richiede una forte resilienza sociale e istituzionale, misure decise sul comune denominatore di tutti i divari: la mancanza di lavoro e di solidi ammortizzatori che evitino che la flessibilità si presenti come precarietà. Colmare il nostro gap occupazionale rispetto alla media europea equivarrebbe a smussare le disuguaglianze più acuminate, vecchie e nuove. Tuttavia, per farlo occorrono ingenti risorse pubbliche e un’ampia tastiera di politiche in funzione di crescita e sviluppo, d’impresa e lavoro. Forse bisognerebbe bussare con credibilità alla porta dell’Europa per ottenere maggior flessibilità per investimenti pubblici non destinati a spesa corrente. Forse qualche importante misura - come la riduzione del cuneo fiscale - potrebbe maturare in condivisione con le parti sociali. Nessuno pretende che il “governo del cambiamento” risolva tutto e in un sol colpo. Al Ministro Di Maio corre però l’obbligo di affrontare le grandi questioni sociali in chiave d’occupazione aggiuntiva e crescita. Urge un ragionamento lungimirante e condiviso per vincere qualche vera battaglia.

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