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Tra riforme e retromarce si dimenticano gli studenti

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L'Analisi|istruzione

Tra riforme e retromarce si dimenticano gli studenti

La scuola italiana degli ultimi 20 anni sembra uscita dalla Grande abbuffata di Marco Ferreri. Per l’indigestione di riforme, controriforme, riordini, fughe in avanti, retromarce, aggiustamenti, restyling e rinnovi che si sono succeduti di governo in governo. E di maggioranza in maggioranza. Il risultato, come racconta Claudio Tucci nell’articolo qui accanto sulle polemiche tipiche di ogni inizio d’anno scolastico, è stato quello di riportarla quasi sempre al punto di partenza. In un eterno gioco dell’oca che è poi la storia di tante riforme di casa nostra. Specialmente quando di mezzo c’è la pubblica amministrazione.

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Se si prendono le parole con cui nel 1999 il ministro dell’epoca, Luigi Berlinguer, annunciava la nascita dell’autonomia scolastica oppure la digitalizzazione imminente delle scuole e le si paragona a quelle utilizzate da Letizia Moratti nel 2003 per spiegare i suoi propositi di innovazione, l’effetto “copia e incolla” che ne deriva appare quanto meno spiazzante. E lo stesso spiazzamento arriva dal ricordo di quanti e quali inquilini di viale Trastevere hanno annunciato di voler rendere realmente «a esaurimento» le graduatorie dei precari. In realtà le Gae sono ancora là e ci resteranno, numeri alla mano, per almeno un altro decennio. Se è vero che alla fine del secolo scorso lo stock di precari da smaltire era di 270mila insegnanti e oggi - dopo maxi-assunzioni e concorsoni vari - siamo ancora sopra quota 80mila.

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Nonostante la lotta al precariato fosse nel programma di tutti gli esecutivi e di tutti gli schieramenti che hanno governato da allora puntualmente sono arrivati interventi legislativi - a volte per attuare pronunce dei giudici altre per ragioni di mero consenso elettorale - che hanno riaperto le graduatorie e ingolfato il plotone di professori in attesa del posto fisso. Come dimostra la ciambella di salvataggio offerta dal governo gialloverde con il decreto dignità a oltre 40mila maestre magistrali. E non sono mancate le manovre a saldo zero. Con il tandem Gelmini-Tremonti che ha tagliato 87mila cattedre tra il 2009 e il 2011 e la coppia Renzi-Giannini che ne ha ripristinato, a partire dal 2015, più o meno altrettante. Peraltro a parità di popolazione studentesca.

L’impressione è che non sia finita qui. Interrogato dal Sole 24 Ore anche il ministro Marco Bussetti, che dichiara di aver passato i sue primi tre mesi al ministero a «gestire l’emergenza e a rimettere in piedi le fondamenta che consentiranno di costruire una casa solida», non nasconde di covare propositi di riforma radicali. La speranza è che per una volta non si parta da chi nella scuola ci lavora (e vota) bensì da chi ci studia (anche se non può votare perchè minorenne). Puntando ad esempio su strutture moderne, programmi all’avanguardia, didattica innovativa, profili al passo con il mondo del lavoro, cicli scolastici in linea con l’Ue, inclusione (reale) degli alunni disabili. E che ci si ponga un orizzonte di dieci anni per tirare le somme. O almeno di cinque. Altrimenti si rischia di ripetere il copione della Buona Scuola che è stata promessa, sbandierata, realizzata, attuata e smontata nel giro di un triennio. Senza aspettare neanche il cambio di maggioranza.

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