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UNA TOP TEN CONTROCORRENTE

Università di ingegneria, le mille sorprese della classifica del Mit di Boston

Le prestigiose università tecniche tedesche di Monaco e Berlino? Assenti. I mitici Politecnici svizzeri di Zurigo e Losanna? Pure. Nessuna traccia anche dei loro “cugini” di Milano e Torino, così come degli atenei francesi e spagnoli. È piena di sorprese l’intrigante classifica redatta dal Mit di Boston sulle migliori facoltà di ingegneria del mondo (“The Global State of the Art in Engineering Education 2018”), un corposo studio di 170 pagine pubblicato dall’ateneo statunitense, che da anni troneggia sul podio delle migliori università tecniche mondiali.

La fotografia scattata dai ricercatori statunitensiè molto diversa da quelle che conosciamo fin troppo bene, in particolare dalla “triade” del ranking composta da Times Higher Education, Qs e Shanghai, con le loro controverse classifiche. Ma vale la pena di considerarla, per il prestigio dell’istituzione che l’ha redatta ma soprattutto per la trasparenza degli obiettivi: identificare gli attuali leader planetari dell’ingegneria assieme alle realtà emergenti che si stanno mettendo in luce.

Vediamo innanzitutto la metodologia della classifica. Il Mit ha scartato i tradizionali criteri dei ranking universitari (reputazione accademica, premi Nobel, pubblicazioni, approdo al mondo del lavoro) per concentrarsi sulle interviste a quasi duecento esperti considerati il punto di riferimento mondiale nella didattica universitaria, provenienti da 18 Paesi di tutti i continenti. Scelta dichiaratamente arbitraria, ma probabilmente non meno arbitraria del balletto dei diversi “criteri” scelti dai colossi mondiali del rating universitario.

Tre i parametri di base adottati dagli esperti interpellati dal Mit per le loro valutazioni: il percorso di carriera dei laureati, il “valore aggiunto” dei singoli programmi rispetto alla media e la capacità degli atenei di impartire un’istruzione di alto livello, anche sotto il profilo dell’innovazione didattica.

Nella top ten le sorprese, appunto, non mancano. Negli Stati Uniti i soliti noti sono affiancati - e talvolta superati - da giovani outsider semisconosciuti, mentre l'Europa in pratica è rappresentata solo da piccoli Paesi estremamente dinamici e tecnologici come Danimarca, Olanda e Svezia. Al primo posto della classifica figura infatti il semisconosciuto Olin College statunitense, nato appena 19 anni fa a Needham, nel Massachussets. Completano il podio il Mit e Stanford, ma ecco in quarta posizione un’altra sorpresa: l’università di Aalborg, in Danimarca, nata negli anni Settanta e celebre per la sua metodologia didattica costruttivista (il “PBL”, “problem-based learning”, ovvero l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi concreti).

In quinta posizione ecco l’Università Tecnica di Delft, vicino a Rotterdam, in Olanda, indicata anche nel quartetto degli atenei emergenti. Quindi l’University College di Londra e la statunitense Purdue University, altro semisconosciuto ateneo statunitense con sede a West Lafayette, nell’Indiana. Completano la top ten la Nus di Singapore, la britannica Cambridge e la svedese Chalmers University, che si trova a Göteborg.

I quattro leader emergenti dell’istruzione ingegneristica sono invece la Singapore University of Technology and Design (SUTD) e la giovane Charles Sturt University, fondata nel 1989 in Australia, oltre all’ateneo di Delft e all’University College di Londra (che compaiono anche nella top ten generale). A queste quattro istituzioni la ricerca dedica dettagliati approfondimenti.

Vediamo per esempio quali sono i punti di forza dell’olandese Delft, l’unica della Ue del quartetto (al netto di Brexit). Secondo il report del Mit, la più famosa delle tre università tecniche dei Paesi Bassi coniuga apertura e innovazione al rigore tecnico della didattica e alla possibilità offerta agli studenti di applicare a problemi concreti la teoria appresa in aula, grazie a numerose attività extracurriculari. Molto apprezzato dal Mit il sistema “misto” di insegnamento offline ed online, ma anche la grande flessibilità didattica offerta ai vari programmi (una sorta di “decentramento pedagogico”), con il pedale dell'acceleratore premuto su interdisciplinarietà e sistemi di apprendimento attivo.

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