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Ilva, troppi mesi persi tra le prove di forza e il cortocircuito giuridico

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L'Analisi|IL FUTURO DI ILVA

Ilva, troppi mesi persi tra le prove di forza e il cortocircuito giuridico

Non è l’ora dei processi né quella delle medaglie da appuntarsi sul petto. Questa è la prima riflessione che tutti dovrebbero fare ora che sul futuro di Ilva finalmente è stato firmato un accordo. Perché, sebbene in misura o con ruoli differenti, forse tutti i protagonisti di questa vicenda potevano fare qualcosa di diverso per tagliare il traguardo molto prima, evitando un dissanguamento finanziario da quasi 30 milioni al mese, difficoltà nella gestione della manutenzione e dell’approvvigionamento dai fornitori, sfiducia crescente da parte dei clienti.

L’ipotesi di accordo discussa a maggio, al tavolo coordinato dall’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, forse poteva essere ulteriormente migliorata se il clima non fosse stato avvelenato da prove muscolari, scontri personali e da un tacito intento di una parte sindacale di rinviare tutto all’insediamento del nuovo governo concedendogli un assist d’oro per fregiarsi della raggiunta intesa. L’esecutivo gialloverde, dal canto suo, ha scelto una complicata procedura amministrativa che ha lasciato un’opacità di fondo e ha di fatto determinato tre mesi di rinvio rispetto alla possibile chiusura.

La trattativa si è infatti improvvisamente incastrata nel labirinto giuridico di una «gara illegittima ma non da annullare». Un apparente ossimoro che ha consegnato alla storia il giudizio di una procedura gestita in modo non regolare dal precedente governo e ha giustificato in qualche modo il tradimento di una base elettorale che ha votato i Cinque Stelle anche o soprattutto perché confidava nella chiusura dell’impianto tarantino. La memoria storica del web conserva traccia di alcuni interventi del ministro Luigi Di Maio, come quello alla Fiera del Levante di due anni fa, che descrivevano un’industria che non era destinata ad andare avanti perché non sostenibile e per la quale andava realizzata un’exit strategy di riconversione. Idee che hanno poi attraversato la campagna elettorale e, anche se più sfumate, il contratto di governo per poi dissolversi nella nube dell’«interesse pubblico concreto e attuale».

A Di Maio va dato atto di aver coordinato un tavolo che alla fine ha comunque portato dei miglioramenti rispetto alla proposta dello scorso maggio. Eppure si è via via svelato che lo stesso governo non credeva fin dall’inizio nell’annullamento. «L’interesse pubblico» non può dirsi «attuale» a distanza di due anni dai fatti, ha ammesso ieri il ministro.

Più di un esperto di giustizia amministrativa inoltre potrebbe chiedersi se l’«interesse pubblico» ad annullare la gara non sussista se in palio ci sono 10.700 assunzioni mentre ci si può concedere di perderne 10.100.

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