Doveva essere una risposta chiara, veloce, esemplare che Genova chiedeva, e con lei l’Italia intera. Una risposta per evitare danni gravissimi al tessuto economico e sociale della città. Il decreto legge per Genova - a 45 giorni dal crollo di Ponte Morandi e a 12 giorni dall’approvazione in Consiglio dei ministri - è diventato invece uno spettacolo di liti continue e norme avventate destinate a durare poche ore per essere riscritte.
A questo brutto copione non si sottrae la giornata di ieri che ha messo in scena il braccio di ferro fra la Ragioneria generale dello Stato e i ministeri competenti. Un braccio di ferro - va detto - che è il frutto (oltre che l’ultimo atto) di un iter incerto e di un impianto legislativo traballante fin dai primi minuti. Non a caso ieri il governatore della Liguria, Giovanni Toti, lamentava le nuove pesanti modifiche al testo rispetto agli accordi presi con il premier poco più di una settimana fa.
All’origine di questo cammino accidentato non c’è solo la divisione politica, più volta emersa, fra i due partner della maggioranza e fra governo centrale e autorità locali. C’è piuttosto il fatto che si sono volute piegare a un disegno politico le norme da scrivere senza tener conto dei tempi, delle soluzioni realistiche, percorribili, coerenti con l’ordinamento costituzionale e amministrativo. Non è detto, per altro, che queste difficoltà non si ripropongano nell’esame che da oggi dovrebbe fare del decreto il Quirinale.
Nel decreto sull’emergenza sono venuti a confluire obiettivi - come la revoca della concessione ad Autostrade e la nazionalizzazione - che certamente sono legittimi per una forza politica - tanto più dopo una tragedia di questo tipo - ma che meglio sarebbero stati affrontati in un disegno di più lungo periodo e nel rispetto di norme e contratti. L’iter avviato all’unanimità dal governo di revoca della concessione ad Aspi è corretto e deve però fare un suo percorso che non potrà ignorare passaggi formali, contraddittori e tempi non strettissimi. Perché è doveroso accertare tutte le responsabilità e agire di conseguenza ma nel rispetto dello Stato di diritto. L’emergenza aveva bisogno di risposte diverse, realistiche e concrete, come più volte hanno detto lo stesso Toti o il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti.
Si sarebbe dovuto chiedere ad Autostrade di rispondere agli obblighi previsti dalla convenzione e di ripristinare le opere pagandone il conto. E si sarebbe potuto fare spazio a un consorzio di garanzia nella realizzazione.
Invece stando ancora alle ultime bozze in circolazione si è preferito lo strappo di esautorare Autostrade da tutti i ruoli con l’eccezione di quella di pagatore, ipotizzando una decadenza surrettizia della concessione che non potrà non suscitare una reazione nelle Aule dei tribunali (se sarà confermata). Si sono tirate in ballo dal primo momento aziende pubbliche che non avevano neanche i requisiti per costruire il Ponte. Si è ipotizzata una nazionalizzazione che non è chiaro con quali soggetti si potrebbe fare. Si è decisa la strada di affidare a trattativa diretta l’appalto rischiando di incappare nei rilievi della Ue e dell’Anac salvo poi introdurre una gara informale. L’impianto era incerto e si attende di vedere il testo finale per capire se gli errori più gravi sono stati corretti.
Nei momenti delle difficoltà e dell’emergenza, un popolo deve saper restare unito e chi governa deve cercare soluzioni che producano il massimo di convergenza. Uno spirito di ricostruzione e di intesa che nulla toglie al fatto che chi ha sbagliato paghi. Nelle emergenze il «fattore tempo» è molto più rilevante delle rese dei conti e dei sondaggi. Lo si deve anzitutto alle vittime della tragedia e a una città che rischia di soffocare sotto quelle macerie.
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