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Lavoro, perché l’Italia ha fallito tutto sui giovani (e…

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GENERAZIONE IN CRISI

Lavoro, perché l’Italia ha fallito tutto sui giovani (e l’Europa no)

Dopo due mesi in discesa, l’occupazione italiana ha dato segni di ripresa ad agosto. L’andamento positivo, spiega l’Istat, «si distribuisce fra le persone maggiori di 25 anni», con un balzo in avanti per chi ha superato i 35. Il problema è quanto succede prima di quella soglia anagrafica, nell’unica categoria relegata ai margini della politica nazionale: le nuove generazioni. Il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 anni si attesta sul 31,8%, il doppio di una media europea scivolata sotto al 15% a luglio 2018. Nella fascia dei 25-34 anni il tasso di inattività è salito dell’1,3% su scala annuale e viaggia oggi al 27%. La quota di 25-29enni intrappolati nella dimensione di Neet, i giovani che non studiano né lavorano, è salito dal 23,8% del 2007 al 31,5% nel 2017.

Il tutto mentre i dati dell’Europa vanno in direzione contraria, con un tasso di disoccupazione giovanile nella zona Ue ai minimi da 10 anni (14,8% nella Ue) e paesi, come la Germania, dove i giovani in cerca di impiego si sono dimezzati dall’11,9% al 6,2% nel 2007-2017. Ci sarebbero i presupposti per un allarme, se non fosse che le politiche in discussione per la legge di Stabilità 2018 parlano - soprattutto - d’altro.

Italia controcorrente. In negativo
I disagi del lavoro giovanile non sono nati con la crisi, ma gli anni di recessione hanno ampliato sia il divario interno fra nuove e vecchie generazioni sia, e soprattutto, quello esterno sugli standard italiani ed europei. In patria si mantiene il cosiddetto «gap generazionale», la disparità fra gli stipendi percepiti fra i lavoratori giovani rispetto ai colleghi senior. Negli anni della crisi i dipendenti under 35 hanno guadagnato in media 4mila euro in meno l’anno rispetto al salario generale, mentre la media retributiva si attesta al -21% rispetto agli standard dei colleghi di altre fasce anagrafiche. Quanto al confronto Italia-Europa, parlano i numeri citati sopra sui “flussi contrari” dell’occupazione giovanile: mentre il Vecchio Continente si riassesta, il mercato italiano si aggancia sempre di più alle parti bassi della classifica comunitaria. Anche le ultime rilevazioni Ue hanno mostrato un’Italia salda nelle retrovie, con un tasso di disoccupazione giovanile oltre al 30% in compagnia di Spagna (33,6%) e Grecia (39,1%). L’indicatore opposto, il tasso di occupazione nella fascia 15-24 anni, ci spinge ancora indietro con un 17,7% a debita distanza dal 29,6% della Francia, il 45,7% della Germania e il 63,9% dei Paesi Bassi.

Primo problema: crescita a rilento
Perché tanto ritardo? Il primo problema è di natura macroeconomica. In un paese che cresce a rilento, con una produttività ferma al palo da anni, l’occupazione non può che risentirne: banalmente, meno crescita significa meno posti di lavoro o comunque un tessuto economico atrofizzato rispetto alla media Ue. Il Pil dell’Eurozona è cresciuto del 2,33% nel 2017, mentre l’Italia ha dovuto “festeggiare” per il +1,4% messo a segno nel 2017. Secondo una ricostruzione della Cgia di Mestre, un istituto di ricerca, in Italia il Pil è aumentato in valori reali di appena il 2,6% tra 2000 e 2017, contro il 25,9% della media europea, dal +23,7% della Germania a picchi record come il 113,2% dell’Irlanda.Il calo della produzione industriale (-19,1% nel 2000 e 2017), abbinata alle dimensioni modeste di investimenti pubblici, si è ripercosso sull’occupazione, colpendo soprattutto le fasce di nuovi lavoratori o aspiranti tali. È abbastanza indicativo il fatto che il tasso di occupazione nella fascia 25-34 anni sia calato dal 70,1% del 2007 al 61,3% del 2017, bruciando oltre 1,5 milioni di posti di lavoro nell’arco di un decennio.

Il mito degli studenti «pronti all’uso»...
Al di là della crescita, o della stagnazione, ci sono dei limiti impliciti al mercato del lavoro italiano. A partire dal vecchio ostacolo della «transizione scuola-lavoro», espressione burocratica per indicare la ricerca di un impiego al termine del proprio percorso di studi. Istruzione e mondo aziendale tendono a dialogare poco, dilatando i tempi di attesa fra la fine di scuole-università e inizio del lavoro. L’Italia è tra i pochi paesi Ue dove a un laureato occorre più di un anno per farsi assumere, ma i tempi restano estesi anche per chi esce da corsi - in teoria - formativi come gli istituti tecnici e professionali. Le imprese lamentano a cadenza periodica il «mismatch», ovvero la difficoltà di trovare profili adatti. Ma spesso il problema andrebbe rovesciato: le 0fferte delle imprese cadono a vuoto perché studenti e neolavoratori non possono essere in possesso di tutte le qualifiche richieste dalle aziende in un certo ciclo produttivo, ma devono essere formati in corso d’opera. Peccato che ad oggi, secondo dati Istat, solo il 60% delle imprese abbia erogato corsi di formazione interni. La propensione al training aumenta nelle imprese di grande dimensione: un segnale spiacevole, per un paese dove oltre il 99% delle aziende è di taglia media, piccola o micro. «Molte aziende sono convinte di trovarsi degli “studenti pronti all’uso”, come se dovessero essere già formati - spiega il sociologo Emilio Reyneri, professore emerito all’Università Bicocca di Milano - In realtà spetterebbe a loro, ma spesso non possono o non sanno farlo».

...e il flop delle politiche attive
Dove non ci sono le aziende, dovrebbe esserci il pubblico. Cioè le c0siddette politiche attive, le misure che incentivano la ricerca di occupazione (si chiamano così in opposizione a quelle passive, come i sussidi). Anche qui, però, l’Italia si relega ai bassi fondi delle graduatorie europee. Il nostro paese spende meno di 200 milioni di euro in «supporto all’impiego», contro i 5 miliardi abbondanti investiti dalla Germania nel solo training e oltre 11 miliardi indirizzati ai servizi per l’impiego. Numeri che permettono a Berlino di tenere in piedi uno delle sue infrastrutture tradizionali, il cosiddetto sistema duale: un modello di alternanza scuola-lavoro, avviato nel 1969, che permette ai giovani di intraprendere dai 16 anni in poi un percorso professionalizzante di formazione sia teorica che pratica, con una divisone equa fra ore sui banchi e tirocini in azienda. Con tutti i suoi limiti, inclusa la dimensione troppo “aziendale” della formazione, il meccanismo duale ha contribuisce ad abbassare la disoccupazione giovanile tedesca a minimi del 6,2%. In Italia si è tentato qualcosa di simile con la «alternanza scuola-lavoro» introdotta dalla legge 107 del 2015: un programma che obbliga gli studenti, sia dei licei che degli istituti, a frequentare un certo numero di ore in attività lavorative (200 per i primi e 400 per i secondi). Il programma ha coinvolto meno nel solo 2016-2017 quasi un milione di studenti, con risultati alterni, ma ora potrebbe avviarsi a una revisione sostanziale con la prossima legge di Stabilità. Se poi si parla del confronto fra dimensioni ed efficienza dei centri per l’impiego, il paragone diventa impietoso. In Italia si contano un totale di poco più di 550 centri per l’impiego, responsabili del ricollocamento di meno del 3% di chi cercava lavoro. In Germania i Bundesagentur für Arbeit, uffici dedicati ai soli disoccupati, hanno in organico quasi 100mila persone e rispondono a un numero ben più alto di richieste.

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