Italia

Ponte Genova, Gentile: «Autostrade non diede tutte le carte»

  • Abbonati
  • Accedi
il crollo del ponte morandi

Ponte Genova, Gentile: «Autostrade non diede tutte le carte»

Si fa strada l’ipotesi della sottovalutazione dolosa dei rischi, nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi a Genova. Una sottovalutazione che sarebbe partita da Autostrade per l’Italia: «A me, però, non diedero tutta la documentazione», ha dichiarato il 2 ottobre Massimo Gentile, il docente del Politecnico di Milano che ha curato lo studio sul viadotto commissionato proprio da Aspi per preparare i lavori di rinforzo degli stralli (retrofitting). Una dichiarazione che va incrociata con almeno due punti della relazione della commissione ministeriale d’inchiesta sulla tragedia, su cui si sta puntando l’attenzione della Procura di Genova.

Gentile è stato sentito come persona informata sui fatti dal pm Massimo Terrile. Ha detto: «Il progettista ha fatto delle valutazioni improprie, ma anche con quelle valutazioni improprie il ponte era da chiudere. Spea sapeva, aveva calcolato il livello di efficienza che era sotto uno e con quel dato il ponte andava chiuso. A me, però, non diedero tutta la documentazione, altrimenti lo avrei detto anche io».

Conflitto d’interessi
Il progettista cui si riferisce Gentile è la Spea, società d’ingegneria del gruppo Atlantia, di cui fa parte anche Aspi. Perciò la relazione ministeriale annota che è «da ritenersi solo formalmente società a sé stante piuttosto che un ramo operativo della stessa concessionaria».
Spea ha subito replicato a Gentile: «Tutte le informazioni necessarie per espletare l’incarico erano state rese disponibili fin dall’inizio». Il mandato a Gentile «era unicamente relativo all’analisi dinamica degli stralli e alla progettazione del sistema di monitoraggio. Le lievi differenze dei modi di vibrazione degli stralli verificati dal Politecnico tra i due sistemi bilanciati 9 e 10 hanno ricevuto puntuale riscontro da parte dei progettisti Spea, che hanno
dimostrato che non era presente alcuna criticità sul viadotto,
dandone pronto riscontro al Politecnico stesso». Il mandato a Gentile «non riguardava il rinforzo delle travi, per le quali il coefficiente di sicurezza era adeguato rispetto alle condizioni di esercizio: il risultato inferiore a uno era
determinato dall'applicazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni entrate in vigore nel 2008. Tali informazioni non riguardavano l’incarico e non furono pertanto fornite a Gentile, ma erano allegate al progetto presentato al Mit nell’ottobre 2017. Nessuno dei tecnici preposti alla valutazione e approvazione le ha mai considerate preoccupanti in quanto erano dovute solo al cambio di normativa».

In ogni caso, il tema della separazione dei ruoli non è una novità nel settore: per esempio, è stato più volte sollevato da Conforma, associazione di categoria che ha tra i suoi soci i principali organismi di controllo accreditati da Accredia (l’ente unico di accreditamento italiano) che operano secondo il grado di indipendenza previsto dallo standard ISO/IEC 17020 nella verifica dei progetti e nei controlli di esecuzione di opere di edilizia civile e infrastrutturale. Per questo Conforma ha chiesto un incontro al ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, per illustrare la sua proposta di estensione degli obblighi attuali.

Proprio lo standard ISO/IEC 17020 è al centro di una delle contestazioni mosse dalla commissione ministeriale: l’importo dei lavori superava, anche se di poco (20.159.344,26 euro), il limite dei 20 milioni oltre il quale la «validazione e verifica» di un progetto va fatta da un organismo accreditato (Codice degli appalti, articolo 26, comma 6, lettera a). Invece, il rapporto di verifica è stato redatto da un ingegnere interno di Aspi. Che ha anche mosso varie obiezioni, ma è stato facilmente tacitato dal Rup (il responsabile unico del procedimento, nominato da Aspi e ora indagato): una nota a corredo del rapporto recita che dopo il confronto col Rup «si è addivenuti alla conclusione che l’intervento sugli stralli...costituisce un’attività estremamente specialistica il cui sviluppo si traduce in scelte costruttive e dimensionali fortemente presidiate in fase di progettazione. Pertanto non si ritiene necessario intervenire sugli aspetti sopra menzionati».

Tradotto dalla commissione ministeriale, significa che «il verificatore non si sarebbe dovuto interessare nel processo di verifica della parte a più alto impegno ingegneristico, negando i princìpi e le finalità stesse del processo di verifica e inficiandone la formulazione finale». Una prassi che sarebbe «illogica» (quasi non si capirebbe a cosa servirebbe il verificatore) e «contraria alle norme».

Un’altra prassi che potrebbe andare nella stessa direzione è quella segnalata al Sole 24 Ore da alcuni addetti ai lavori già prima del crollo del Ponte Morandi: una tendenza da parte di Aspi ad affidare incarichi anche a tecnici esterni, ma in posizione contrattuale di debolezza.

Valutazione impropria
Perché Gentile davanti al pm parla di «valutazione impropria»? Nella relazione della commissione ministeriale si trovano varie risposte.

In sintesi:

- monitoraggio della corrosione con poche indagini visive in grado di mostrare il reale stato dell’opera (prevalevano le «indagini qualitative», che presumevano il suo grado di ammaloramento ma «con enormi incertezze») e in particolare alcuni cavi di acciaio (che armano il calcestruzzo) rotti, cosa che avrebbe dovuto far sospettare problemi nei cavi non ispezionati ma non ha portato a farli controllare tutti;

- le indagini di Aspi sono state solo «di tipo qualitativo non verificabili oggettivamente su base numerica»;

- verifica di sicurezza della trave di bordo dell’impalcato (la parte sospesa più importante, di cui Gentile sottolinea un «livello di efficienza» - cioè un indice di sicurezza inteso come rapporto tra capacità e domanda - inferiore a uno) con calcoli fatti in base in base a mere ipotesi di degrado della struttura, visto che il monitoraggio della corrosione portava solo a presunzioni e quindi il degrado era «non ben noto»;

- procedura di controllo della sicurezza strutturale «inadatta al fine di prevenire i crolli e del tutto insufficiente per la stima della sicurezza nei confronti del collasso», non solo sul viadotto crollato ma su tutta la rete Aspi.

La commissione ministeriale ha poi ritenuto che le condizioni della struttura siano state valutate da Aspi attribuendo in molti casi ai difetti visibili una votazione differenza da quella che avrebbe dovuto essere data secondo il manuale della stessa Aspi.

Etichetta «fuorviante»
A chiudere il cerchio, ci sarebbe il fatto che Aspi aveva classificato il retrofitting del Ponte Morandi come un mero intervento locale. Cosa significa? Che si andavano a toccare parti non importanti per la struttura nel suo complesso. Perciò non si rendeva necessario un collaudo statico.

Un modo per nascondere problemi strutturali che sarebbero emersi nel corso del controllo e che Aspi non riteneva di affrontare? O solo il prodotto di una serie di errori tecnici?

Probabilmente sarà questo, fra i tanti emersi finora, il punto fondamentale delle indagini e del processo. Anche perché serve a determinare pure le responsabilità del ministero delle Infrastrutture, cui appartengono molti indagati: più si dimostra che Aspi ha nascosto problemi e criticità, meglio ne escono i controllori ministeriali. Tanto che la relazione della commissione evidenzia proprio che l’etichetta di intervento locale attribuita al progetto da Aspi avrebbe fuorviato il presidente del Comitato tecnico amministrativo del Provveditorato alle opere pubbliche, Roberto Ferrazza: secondo la tesi portata avanti dalla relazione, se il retrofitting fosse stato definito in modo diverso, Ferrazza si sarebbe accorto che avrebbe dovuto far esprimere su di esso il Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Naturalmente, però, i pm intendono accertare se Ferrazza e gli altri membri abbiano svolto il loro lavoro con quella normale diligenza che gli avrebbe consentito di accorgersi che non si trattava di intervento locale. E, se emergesse che non sono stati diligenti, cercheranno di capire se sia stato solo per leggerezza o altro.

Le memorie cancellate
Com’è possibile che Aspi, pur sapendo che il viadotto era a rischio di crollo, non è intervenuta con urgenza né ha limitato il traffico? Per ora si può solo osservare che evidentemente Aspi confidava che il viadotto restasse in piedi comunque: nessuno rischierebbe di causare una catastrofe, se avesse la piena consapevolezza di un pericolo vicino o addirittura imminente. Può anche essere che, in un’organizzazione complessa come quella di una grande azienda, sia difficile che si formi una consapevolezza collettiva. O che ci siano addirittura conflitti interni (per esempio, perché una chiusura o una limitazione del traffico possono portare a penalizzazioni sullo stipendio per alcuni dirigenti).

Forse sarà possibile valutare anche questi aspetti, ora che la Guardia di finanza sta riuscendo a recuperare i contenuti che erano stati cancellati da computer e cellulari di alcuni indagati di ministero e Aspi.

© Riproduzione riservata