Con la kermesse di Nicola Zingaretti nel popolare quartiere di San Lorenzo a Roma nel week end (evento intitolato “Piazza grande” a evocare quel fronte largo del centrosinistra che fu che si vuole ricreare per costruire l'alternativa al governo dei “populisti) è di fatto partito il congresso del Pd che dovrà decidere gli assetti e la strategia del dopo Renzi.
Con l'anomalia di un percorso e di una data che ancora non ci sono, dal momento che il segretario reggente Maurizio Martina non ha intenzione di dimettersi prima del forum programmatico di Milano di fine mese: si ipotizzano lo scioglimento dell'assemblea nazionale il 10 o il 17 novembre e le primarie aperte conclusive del congresso il 10 febbraio, ma dovrà essere appunto Martina con le sue dimissioni ad avviare il tutto. Non a caso l'ex premier Paolo Gentiloni, l'unico big che ha parlato dal palco di Piazza grande prima del discorso conclusivo del candidato alla segreteria Zingaretti, ha rimarcato che «dopo sette mesi dalla sconfitta elettorale è forse ora di farlo, il congresso».
Gentiloni in campo ma super partes
E in fondo è stato proprio lui, Gentiloni, il protagonista della kermesse zingarettiana: con un discorso alto, inclusivo,
si è di fatto candidato a guidare la futura coalizione di centrosinistra alle prossime elezioni politiche («che potrebbero
arrivare prima di quanto pensiamo», ha avvertito) come candidato premier. Perché il Pd da solo non basta più - è il ragionamento
di Gentiloni, ormai condiviso da tutti i dirigenti dem compreso Matteo Renzi che il prossimo week end lancerà dalla Leopolda
a Firenze i suoi comitati di resistenza civica che guardano al mondo liberale e democratico anche fuori dal Pd -: occorre
coinvolgere le associazioni, la società civile, la sinistra fuori dal Pd che con Pier Luigi Bersani attende l'esito del congresso,
insomma allargare il campo. Proprio in virtù del ruolo di candidato di una coalizione più larga Gentiloni non ha fatto un
endorsement esplicito in favore di Zingaretti, e ha voluto ringraziare da una parte Martina per il lavoro difficile di questi
mesi e dall'altra l'ex ministro Marco Minniti - il candidato forte anti-Zingaretti, appoggiato da Renzi, che nelle prossime
ore dovrebbe sciogliere la sua riserva - per l'ottimo lavoro fatto sull'immigrazione durante la sua permanenza al Viminale.
E si sa, i rapporti tra Gentiloni e il suo ex ministro sono ottimi. Insomma, Gentiloni è in campo con la sua presenza ma ritagliandosi
un ruolo super partes.
La linea del «cambiare strada»
In platea ci sono Martina, gli altri due candidati alla segreteria Matteo Richetti (che andrà anche alla Leopolda) e Cesare
Damiano. E soprattutto ci sono Dario Franceschini e tutti i dirigenti che provengono dalla vecchia corrente franceschinian-veltroniana
di Area dem: Luigi Zanda, Piero Fassino, Gianclaudio Bressa, l'ex ministra Roberta Pinotti. Ma anche il ministro del Jobs
act Giuliano Poletti. Non proprio un parterre di sinistra radicale. Il punto è che tutti questi dirigenti che fino alle elezioni
facevano parte della maggioranza renziana, compreso Gentiloni, si sono convinti che per rilanciare il partito occorre innanzitutto
superare il renzismo («cambiare strada», sono le parole sia di Gentiloni sia di Zingaretti) con una nuova leadership, isolando
così in un certo senso l'ex leader. Ma – ed è questo il punto politico rilevante - senza abiurare il riformismo dei governi
del Pd, rivendicato dal palco sia da Gentiloni («i governi di Enrico Letta, di Renzi e il mio») sia dallo stesso Zingaretti.
Semmai entrambi hanno messo l'accento sulla necessità di rispondere più di quanto non si sia fatto in passato al disagio sociale
degli «esclusi dalla globalizzazione». Ma senza inseguire il M5s sul terreno del reddito di cittadinanza: la ricetta di tutto
il Pd resta quella di rafforzare il reddito di inserimento (Rei) avviato alla fine della scorsa legislatura.
Strategie differenti
Quanto alla questione del confronto con il M5s, Zingaretti ha voluto scrollarsi di dosso con forza l'accusa dei renziani di
cercare una futura alleanza: noi siamo alternativi ai pentastellati - è il senso del ragionamento ¬del governatore del Lazio
- ma dobbiamo parlare a quegli elettori che ci hanno abbandonato per farli tornare a casa. C'è un filo di ambiguità, certo,
sulla quale sicuramente si incuneerà la campagna congressuale dei renziani. Ma lo stesso Renzi ha voluto smorzare la polemica
su questo punto («Zingaretti ha finalmente smentito ogni accordo con i 5 stelle che ancora un mese fa qualcuno rilanciava
come fondamentale»). Resta la differenza di strategia: Zingaretti e i suoi sostenitori pensano che, in un sistema elettorale
prevalentemente proporzionale come quello attuale, occorra disarticolare l'alleanza tra M5s e Lega mettendo in difficoltà
i primi. Mentre i renziani pensano che l'unico modo di costruire l'alternativa è una contrapposizione frontale sia a M5s sia
alla Lega, nella convinzione che l'elettorato ormai può spostarsi con grande facilità in tempi brevi.
Minniti al lavoro per differenziarsi da Renzi
La discesa in campo di Minniti, d'altro canto, ha due nodi da sciogliere nelle prossime ore (da qui la cautela dell'ex ministro):
in che cosa differenziarsi dal suo principale avversario, visto che la piattaforma programmatica sembra essere abbastanza
simile, e soprattutto come costruire la sua candidatura in modo che non appaia come quella di Renzi per interposta persona.
Minniti può contare sull’appoggio di molti sindaci (la sua candidatura in effetti è stata lanciata la scorsa settimana proprio
da un appello dei sindaci di area renziana) e di vari governatori e segretari regionali, soprattutto al Sud. Per questo in
molti pensano che alla fine il congresso potrebbe anche vincerlo: ma la costruzione di un’immagine autonoma da Renzi è fondamentale
allo scopo.
Renzi e la carta dei comitati civici
Quanto a Renzi, l'appoggio a Minniti è certamente convinto ma quella dell'ex ministro degli Interni non è una candidatura
che può essere presentata come “sua” tout court (Renzi avrebbe preferito Graziano Delrio, politicamente a lui più vicino).
E dunque Renzi già guarda oltre il Pd: con i comitati civici che lancerà alla Leopolda intende costruire una sorta di resistenza
ai populisti che si rivolge più a mondo liberal-democratico che a quello della sinistra classica. E non a caso in vista delle
prossime elezioni europee ha firmato un manifesto anti-populista ed europeista con i leader, estranei al Pse, di Ciudadanos
in Spagna e della macroniana En Marche in Francia. Con Minniti segretario le due strategie - la costruzione cioè di un novello
Ulivo nella schema gentilonian-zingarettiano e il fronte largo europeista che guarda a Macron nello schema renziano - possono
anche convivere. Ma se dovesse vincere Zingaretti in molti pensano che le strade potrebbero separarsi fino a formare due partiti
distinti. In coalizione alle prossime elezioni politiche, ma distinti.
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