Il film è a colori ma si ricorda in bianco e nero per la cupezza e la desolazione dei luoghi. E poi perché come la protagonista
ci si sente costantemente braccati. Si tratta di Sangre blanca, una storia di droga e rapporti familiari, della giovane regista
argentina Barbara Saracole-Day presentato alla Festa del cinema di Roma.
Storia di droga e di paternità inesistente
Nella prima scena Martina e Manuel attraversano il confine tra Bolivia e Argentina e subito dopo il ragazzo muore tra spasmi
e dolori lancinanti. Martina va in bagno e si libera degli ovuli di cocaiana che ha ingerito. La morsa dei trafficanti si
stringe su di lei che deve consegnare in un'altra città tutta la merce. Sia quella che ha trasportato che quella rimasta nel
cadavere di Manuel. La ragazza chiede aiuto al padre, un padre che non ha mai conosciuto e che è costretta a minacciare per
farlo venire. Il papà arriva, insieme recuperano la cocaina dal cadavere e lei può consegnare tutto ai trafficanti. Ma quello
che poteva sembrare un “lieto fine” viene ribaltato dalla scena finale.
Nessuna speranza o redenzione
Non c'è speranza, non c'è redenzione. Nonostante la condivisione di un'esperienza estrema non si crea alcun rapporto tra padre
e figlia. L'uomo agisce perché costantemente minacciato dalla ragazza, vorrebbe liberarsi lasciandole dei soldi ma non ci
riesce. Martina è sempre sostanzialmente sola e terrorizzata. Cammina con il cappuccio della felpa calcato sulla testa per
le strade e i locali di questo paese di frontiera a metà tra un villaggio western e una favelas. E forse questo straniamento,
questa totale assenza di empatia penalizzano la riuscita di Sangre blanca, rendendolo a volte faticoso ma sicuramente interessante.
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