Da Roma arriva un segno di incoraggiamento per il cinema italiano. È Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis a vincere il Premio del pubblico Bnl assegnato al termine della tredicesima edizione della Festa del cinema capitolina. Un'opera imperfetta ma visivamente affascinante ed emotivamente intensa. Per certi versi scomoda. Che parla di speranza in una terra disperata: la foce del fiume Volturno e il litorale domizio, al confine tra le province di Napoli e Caserta, già portati sul grande schermo, chilometro più chilometro meno, da Guido Lombardi con La'-bas e Matteo Garrone con Gomorra. Oltre che dallo stesso De Angelis con il suo esordio di sette anni fa (Mozzarella Story) e con il suo film più celebre: Indivisibili che ha vinto sei Nastri d'argento, otto Ciak d'oro, un Globo d'oro e sei David di Donatello.
Un crocevia di razze e di disperazione
La camera spesso a mano del 40enne regista napoletano segue Maria (Pina Turco), perennemente accompagnata dal suo pitbull,
mentre si divide tra la madre (Cristina Donadoni) e una madame ingioiellata (Marina Confalone). Per lavoro risale il fiume
e accompagna le ragazze straniere, spesso prostitute, a partorire dei bambini che cresceranno altrove. In un crocevia di razze,
miseria e disperazione che non si dimentica. Difficile non solidarizzare con la protagonista. Che piano piano rialza la testa.
E si ribella agli stenti, ai soprusi, al destino. “A me non ci uccide nessuno”, la sentiamo pronunciare a metà film. E da
quel momento inizia la sua rinascita. Grazie al miracolo di una nuova vita che arriva.
De Angelis spinge troppo sul melò
A modo suo Il vizio della speranza è anche un film spirituale. Nel senso terreno del termine: la terra genera, la terra ospita, la terra lascia prosperare e
poi sovrasta il corpo morto. Grazie anche al fiume che vediamo scorrere lento e che permette alla terra di restare viva e
di portare a mare le brutture del mondo. Tutto ciò De Angelis ce lo mostra con più di un virtuosismo registico. E con una
messinscena efficace che può godere anche della colonna sonora originale di Enzo Avitabile. In un crescendo di pathos che
alla fine rischia però di risultare eccessivo. La scelta di spingere troppo sul pedale del melodramma in alcuni punti porta
il film fuori binario. Salvo riprendersi sul finale. Con un'ultima inquadratura che richiama secoli e secoli di pittura sacra.
E che resta dentro anche una volta che si sono riaccese le luci in sala.
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