È certamente vero che la fase di stagnazione (con rischio di ritorno della recessione) giustifichi ancora di più una manovra espansiva, come ha sostenuto il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. Ciò significa una cosa sola: investimenti. Ma proprio alla voce investimenti la legge di bilancio ancora fresca di inchiostro appare in realtà incolore. Certo assai più incolore delle parti che i contraenti del Contratto di governo hanno voluto enfatizzare come i veri punti qualificanti della manovra del popolo: reddito di cittadinanza, quota 100, avvio di flat tax.
Eppure tutta l'impalcatura della manovra poggia proprio sulla politica del denominatore, quindi sulla crescita del Pil cifrata all'1,5% nel 2019, unico indicatore dell'ottimismo in una intera Eurozona improntata a prudenza, se non vero e proprio pessimismo. La Commissione Ue dubita del nostro ottimismo e quota la crescita all'1,2%, in realtà non platealmente distante dalle stime italiane. E proprio in questa relativa distanza esiste il vero spazio politico per il confronto tra Roma e Bruxelles. Se non fosse che le posizioni si sono inusualmente irrigidite proprio sulle metodologie di calcolo del quadro macroeconomico.
Del resto è la stessa indicazione fornita dal Governo italiano sui moltiplicatori della spesa in disavanzo a fornire più di un dubbio agli esaminatori europei: per ogni euro speso in deficit il Mef stima un ritorno al Pil nel 2019 di 50 centesimi che diventano 35 se considerati come media del triennio.
Non basta a dare il propellente che servirebbe alla crescita su cui l'Italia scommette: i moltiplicatori non tornano perché, di fatto, la maggior quota di spesa va ai trasferimenti per provvedimenti di tipo assistenziale (primo tra tutti il reddito di cittadinanza) che in genere hanno moltiplicatori dello 0,7 o 0,8, secondo l'econometria più generosa. E questo la Ue lo ha capito perfettamente. Ed è il primo degli argomenti che oppone ai negoziatori italiani. E da qui si smonta anche tutto il castello che vede nel 2019 un aumento dell'1,3% dei consumi e dell'1,8% della domanda interna (che l'anno successivo diventano rispettivamente 1,6 e 1,7%).
Il tema resta quello della fiducia, di cui l'Italia soffre più di altri. È il bene immateriale più impalpabile ma più prezioso in grado di rendere esponenziale la crescita o, al contrario, di aumentare la velocità del rallentamento. L'Italia è troppo esposta proprio perché sembra maneggiare le aspettative con un eccesso di confidenza. Che si traduce in una esposizione di numeri che apparentemente non tornano, primo dei quali quel deficit al 2,4% diventato totem e tabù sia per Roma sia per Bruxelles.
Overconfidence la chiamano gli economisti ed è sinonimo di errore cognitivo. C'è un precedente che pesa. È quello del decreto lavoro (passato con la denominazione roboante di Decreto dignità): doveva azzerare la precarietà indotta dal jobs act (in realtà si trattava di contratti a termine, lavoro legittimo e regolare in uso in tutta Europa in quote anche maggiori). Ma, come si temeva, comincia a produrre solo una riduzione del numero di occupati. Ce lo ricorda oggi Carlo Bonomi presidente dell'Assolombarda: nel territorio più performante dell'Italia ci sono già 12mila contratti in meno. E se va così nella locomotiva del Paese, figurarsi che cosa succede altrove.
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