Più di 60 capi di Stato e di governo e dirigenti delle grandi istituzioni internazionali si incontrano a Parigi nel centenario dell’armistizio del 1918 con la Germania, che suggellò la fine della Prima guerra mondiale. Un appuntamento che, nelle intenzioni del presidente francese Emmanuel Macron, va oltre l'aspetto celebrativo, ma servirà a «preparare l'avvenire traendo insegnamento dal passato».
L'Italia è rappresentata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che una settimana fa a Trieste ha commemorato, con una sobria cerimonia, l’armistizio di Villa Giusti del 4 novembre 1918 con l'Austria-Ungheria, che accelerò anche la resa della Germania (le truppe italiane, dopo l'avanzata su Vittorio Veneto, avrebbero potuto aprire un nuovo fronte alle spalle dell’esercito tedesco). Nella capitale francese - dove sono arrivati, fra gli altri, Trump e Putin, Theresa May e Justin Trudeau, Erdogan e Netanyahu - per garantire la sicurezza sono stati mobilitati 10mila uomini delle forze dell'ordine e dell'esercito.
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La storica riconciliazione franco-tedesca
A Parigi, accanto a Macron, un posto speciale è stato riservato alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che già nel pomeriggio
di sabato si reca con lui alla “Clairière de Rethondes”, la radura nei boschi di Compiègne (in Piccardia), dove alle cinque
di mattina dell'11 novembre 1918, su un vagone ferroviario in sosta presso la stazione di Rethondes, i plenipotenziari tedeschi
firmarono l’armistizio (esecutivo sei ore dopo) davanti al maresciallo francese Ferdinand Foch, comandante in capo di tutti
gli eserciti alleati sul fronte occidentale. Alle ore 10.59 un pezzo da campagna sparò l'ultimo colpo della guerra, un minuto
dopo fu dato l'ordine a un trombettiere di suonare il “cessate-il-fuoco”.
Per non urtare la sensibilità della Germania e per ribadire la storica riconciliazione franco-tedesca, Macron ha scelto di
non celebrare l'evento con una parata militare lungo l'Avenue des Champs-Elysées e di far aprire i lavori del Forum sulla
pace, domenica pomeriggio, da Angela Merkel e dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres. Il Forum (in odore di multilateralismo)
sarà invece “snobbato” dal presidente americano Trump, che domenica pomeriggio si reca al cimitero di guerra americano di
Suresnes, nella “banlieue” parigina. Fra l'altro, in un secolo, è solo la seconda volta che un cancelliere tedesco (meglio,
una cancelliera) partecipa alle celebrazioni per l'armistizio dell'11 novembre a Parigi: la prima volta, nel 2009, con lei
a ravvivare la fiamma del milite ignoto c'era il presidente Nicolas Sarkozy.
Dieci milioni di morti
In Francia il soldato della Grande Guerra viene chiamato familiarmente con il nomignolo di “poilu” e rappresenta un modello
di civismo, al tempo stesso eroe e vittima. La municipalità di Parigi, per rendere omaggio ai suoi 94mila “poilus” caduti
in battaglia, inaugura domenica verso sera un monumento sul muro di cinta del cimitero di Père-Lachaise.
Le cifre complessive, su tutti i fronti della guerra, durata dall'estate 1914 all'autunno 1918, sono spaventose: circa dieci
milioni di morti e 20 milioni di feriti (su 70 milioni di uomini chiamati alle armi), ai quali andrebbe aggiunto un numero
imprecisato (ma molto alto) di vittime civili. Citiamo i caduti sui fronti più importanti: quasi due milioni di tedeschi,
un milione e mezzo di francesi, circa un milione di austro-ungarici e altrettanti britannici, 116 mila americani. Per l’Italia
si stimano 650mila caduti o morti in conseguenza delle ferite subite in battaglia. Molti dei soldati deceduti per malattia
furono invece vittime della terribile “spagnola”, epidemia arrivata in Europa nella primavera-estate 1918. L'influenza colpì
soprattutto gli individui giovani: in Italia si ammalarono tra i cinque e i sei milioni di persone, i casi di morte furono
uno ogni 11-12 contagiati. Un ulteriore flagello, dopo la guerra.
Lo spettro del comunismo bolscevico
La Conferenza della pace di Parigi, che si aprì nel gennaio 1919, annunciò la creazione di un nuovo ordine mondiale democratico
e duraturo, ma non fu così. La Rivoluzione russa del novembre 1917 aveva mutato radicalmente lo scenario politico europeo.
Subito dopo la fine della guerra a Berlino era stata proclamata la Repubblica e l’imperatore Guglielmo II riparava in Olanda,
a Vienna il 12 novembre Carlo I rinunciava al trono asburgico e fuggiva in Svizzera, seguirono la proclamazione della Repubblica
austriaca, di quella ungherese, cecoslovacca e la nascita del regno di Jugoslavia.
Ma in quasi tutto il continente, nei Paesi vincitori come nei vinti, ci furono disordini, scioperi, conati rivoluzionari,
anche per le depresse condizioni economiche e sociali. Nelle trattative di pace, se ai francesi e agli italiani importava
prima di tutto avere liquidato l’Impero germanico e quello asburgico e chiedere i risarcimenti, i britannici e gli americani
percepirono con grande angoscia la possibilità che, dopo la Russia, anche nell'Europa centrale e occidentale sventolasse la
bandiera rossa del comunismo bolscevico.
Il fantasma di Pétain
Diventano quasi profetiche le parole di Foch, secondo cui il Trattato firmato a Versailles con la Germania «non è una pace,
ma un armistizio lungo vent'anni». Il vecchio maresciallo morirà nel 1929, dieci anni prima che Hitler invadesse la Polonia,
facendo scoppiare la Seconda guerra mondiale. Il 22 giugno 1940, nello stesso vagone ferroviario dove era stato firmato l’armistizio
del 1918, Hitler in persona ricevette i plenipotenziari del governo Pétain per la firma della capitolazione della Francia.
Quella vettura sarà trasportata dai tedeschi a Berlino e finirà distrutta sotto i bombardamenti aerei. Nella “Clairière de
l'Armistice” adesso c'è un altro vagone identico.
Nei giorni scorsi, però, il fantasma di Pétain ha un po' guastato il “tour della memoria” del presidente Macron, impegnato a risalire dalla recente perdita di consensi con un viaggio nei luoghi della Grande Guerra. La buccia di banana che ha fatto scivolare Macron è stata la citazione sul maresciallo Philippe Pétain «grande soldato durante la Prima guerra mondiale», vincitore della battaglia di Verdun nel 1916, che poi «fece scelte funeste durante la seconda», quando fu alla guida del regime collaborazionista di Vichy dal giugno 1940 all'agosto 1944. La polemica – ancora quasi inevitabile in Francia quando si evoca Pètain – ha riguardato la cerimonia in onore dei marescialli della Grande Guerra ed è stata poi “tamponata” dall'Eliseo con la precisazione che l'omaggio avrebbe riguardato solo i cinque marescialli sepolti agli Invalides (fra i quali c'è Foch, ma non Pétain).
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