Tra la melina alla Camera e la girandola di contatti tra leader, la manovra aspetta di cambiare pelle. L’immagine dei festeggiamenti dei Cinque Stelle sul balcone di Palazzo Chigi per il deficit al 2,4%, scattata poco più di due mesi fa, si è parecchio ingiallita. Sostituita da quella dell’abbraccio tra il premier Giuseppe Conte e il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker. Ma la nuova veste della legge di bilancio è ancora impantanata tra le aperture di Buenos Aires e le resistenze romane dei due vicepremier. Alla esplicita richiesta europea di abbassare drasticamente il deficit, il numero uno della Lega Matteo Salvini ha replicato: «L’Europa deve chiedere come uso i soldi, non di fare l’1,9».
LA SCHEDA / TUTTE LE RETROMARCE SU DEFICIT, PENSIONI, FISCO E REDDITO DI CITTADINANZA
Il nodo restano le spese per la riforma della Fornero, con quota 100, e per il reddito di cittadinanza, che da sole valgono 16 dei 22 miliardi di deficit aggiuntivo previsto finora dalla legge di bilancio. Ed è qui che il confronto politico appare inceppato. Con Conte che adesso prova a spendere concretamente sul piano interno la piena fiducia incassata domenica dai due vice. Aiutato dai “dialoganti” del Governo, a partire dal sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, che ieri ha rassicurato: «La manovra cambierà il giusto e in meglio».
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Ma a complicare ulteriormente le modifiche c’è il fatto che già le misure inserite nella versione originaria della legge di bilancio sono un compromesso rispetto alle ambizioni messe nero su bianco solo sei mesi fa nel contratto di governo. «Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro con quota 100», prometteva il documento. Ma proprio sulle pensioni si è incendiato il confronto con l’Europa, moltiplicando le ipotesi di vincoli, limiti e alleggerimento della misura. Al momento, come anticipato dal Sole 24 Ore, si lavora su una quota 100 per tre anni, pensata come soluzione ponte per arrivare all’uscita generalizzata con 41 anni di anzianità. Ma nemmeno così i conti tornano. E le finestre (3 mesi per i lavoratori privati, 6 per i pubblici) possono offrire qualche aiuto sul 2019, ritardando di qualche mese l’avvio della spesa effettiva. Ma i risparmi da 1,6 miliardi (0,1% del Pil) sui 6,7 stanziati in manovra non sono sufficienti a far quadrare i conti. E soprattutto non sono strutturali.
“Per arrivare ai circa 7 miliardi di riduzione del deficit chiesto dall’Ue occorre un ripensamento profondo della struttura della manovra”
Parallela la partita su reddito e pensioni di cittadinanza. Anche in questo caso la griglia di condizionalità disegnata dai consulenti del vicepremier Luigi Di Maio ha puntato tutto sul calendario, arrivando a calcolare 2,25 miliardi di minori spese (su 9 complessivi) grazie alla partenza dal 1° aprile e 500 euro di importo medio mensile a nucleo familiare. Il contratto, prospettando 780 euro netti al mese per ogni disoccupato, contemplava anche 2 miliardi di euro (uno in manovra) per «la riorganizzazione e il potenziamento dei centri per l’impiego». E puntava a un «dialogo nelle sedi comunitarie» per finanziare il tutto con «l’utilizzo del 20% della dotazione complessiva del Fondo sociale europeo». La trattativa con Bruxelles, in realtà, si gioca solo sulla possibilità di attingere dal Fse per la riforma dei centri per l’impiego. Perché la commissaria Thyssen ha ribadito a Di Maio che quei fondi non sono utilizzabili per l’erogazione del reddito minimo.
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Ma il balletto sui tempi è solo un palliativo: per arrivare ai circa 7 miliardi di riduzione del deficit chiesto dall’Ue occorre un ripensamento profondo della struttura della manovra, da consegnare a Bruxelles prima del 19 dicembre. Supportato da correttivi già approvati e da un maggiore dettaglio sul piano di privatizzazioni da 18 miliardi, a cui l’Economia sta lavorando per mettere contenuti più precisi sul tavolo del confronto. Si giocherà dunque tutto nel passaggio al Senato, ma non prima di aver trovato la quadra sui nuovi «numerini». Quadra che sicuramente non potrà lasciare spazio a un allargamento della flat tax, tema su cui la legge di bilancio si limita al piccolo intervento sulle partite Iva senza nemmeno accennare alla riforma dell’Irpef che aveva dominato la campagna elettorale e che rappresentava «il punto di partenza» secondo il contratto di governo.
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Non è presente nel patto ma era il fulcro delle coperture del programma elettorale M5S l’accoppiata di tagli di spesa e revisione delle tax expenditures che secondo i proclami avrebbero potuto portare fino a 70 miliardi complessivi a regime. L’aggressione alle detrazioni è caduta insieme alla riforma Irpef, mentre sulla spending gli obiettivi effettivi messi in campo dalla manovra si limitano a 2 miliardi. Ennesimo dietrofront passato sotto silenzio, anche se un po’ più di ambizione sulla revisione della spesa pubblica potrebbe aiutare ad accorciare le distanze tra Roma e Bruxelles.
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