In dicembre, mentre i tecnici governativi erano impegnati nella confezione di “quota 100”, lo sbandierato primo passaggio per il “superamento della riforma Fornero”, uno dei nostri massimi esperti di previdenza, il professor Sandro Gronchi, completava un saggio sulle prospettive del sistema pensionistico italiano, destinato al terzo volume collettaneo che la World Bank sta per dedicare ai sistemi contributivi nel mondo. Gronchi è un economista dell’Università La Sapienza di Roma con un lungo trascorso di analista e consulente in materia previdenziale. Con questa intervista lunga proponiamo ai nostri lettori i contenuti più importanti. La lettura, avvertiamo subito, è impegnativa. Ma aiuta a capire la complessità dei problemi sul tappeto e dove ci possono portare i nuovi pensionamenti 2019.
Professore, il Governo Conte propone “quota 100” per aggiungere nuova “flessibilità al pensionamento” e “liberare posti di
lavoro”. Che idea si è fatto?
Neppure le opposizioni sembrano accorgersi che la proposta è sbagliata a prescindere dagli effetti che potrà produrre. Di
flessibilità c'è molto bisogno, ma con modalità e per scopi del tutto diversi. L'errore affonda le radici nella “filosofia
contributiva” che l'Italia fece la scelta di abbracciare nel 1995.
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Sono passati più di vent’anni. All’epoca si pensava a un sistema che garantisse pensioni più eque, basate sui contributi versati,
oltre che la possibilità di scegliere liberamente l'età del pensionamento.
Lo scopo primario dello schema contributivo, internazionalmente noto come “Ndc” da Notional Defined Contribution, è la corrispettività,
cioè la restituzione dei contributi versati nel corso della vita attiva. Allo scopo, la pensione è calcolata spalmandoli sulle
vite residue del pensionato e del coniuge superstite. La corrispettività implica due meritevoli conseguenze. La prima è la
“sostenibilità”, cioè il pareggio tendenziale fra la spesa pensionistica e il gettito contributivo. La seconda è la “flessibilità”,
cioè la libertà di scegliere l'età per andare in pensione.
Benché, in linea teorica, le età siano tutte “indifferenti” per l'equilibrio finanziario del sistema, e quindi la scelta possa essere del tutto libera, alcune ragioni pratiche suggeriscono di limitarla. Da un lato, il pensionamento tardivo non deve imporre alle imprese lavoratori troppo anziani, tendenzialmente portatori di produttività inferiori. Dall'altro, il pensionamento precoce non deve generare pensioni troppo basse, foriere di stati di povertà senile che la fiscalità generale dovrebbe altrimenti soccorrere.
Al pensionamento precoce si oppone anche una ragione tecnica molto importante. Per spiegarla in termini semplici, e quindi approssimativi, occorre premettere che la longevità crescente impedisce di prevedere la durata delle nuove pensioni, cioè la longevità dei nuovi pensionati e dei loro superstiti, estrapolando quella delle generazioni precedenti. Per stimarla, si dovrebbe ricorrere alle tecniche previsionali messe a disposizione dalla demografia, che tuttavia non sono infallibili. Perciò tutti i “paesi Ndc”, Italia compresa, hanno preferito rinunciare alle stime assumendo che la longevità futura replichi quella osservata in passato. Il rischio che l'ipotesi sia smentita dai fatti resta a carico dello Stato. In altri termini, lo Stato deve pagare il “premio” implicitamente concesso alle pensioni calcolate spalmando i montanti contributivi su durate inferiori a quelle effettive. Più esattamente, i premi, non pagati dai contributi, generano deficit che lo stato è chiamato a ripianare. Ciò smentisce la sostenibilità dello schema Ndc, e quindi la sua autosufficienza. In realtà, lo stato non dovrebbe sussidiare lo schema solo se la longevità fosse costante.
Per contrastare il longevity risk, lo schema Ndc svedese ha momentaneamente trovato una soluzione nel sofisticato strumento attuariale del Balance Mechanism, ma la previsione della longevità resta un argomento di cui molto si discute. Duole dire che temi così importanti sono del tutto trascurati (forse ignorati) dal dibattito italiano che, duole dire, stenta a raggiungere la qualità di cui c'è bisogno. Il longevity risk aumenta al diminuire dell'età al pensionamento. In altri termini, chi va in pensione prima beneficia di un premio maggiore. Ecco perché il pensionamento precoce ha un costo che occorre limitare.
Con le riforme che hanno seguito quella contributiva del 1995, non trova che della flessibilità si sia persa traccia?
La prospettiva del pensionamento flessibile è stata decisiva per il buon esito di tutte le riforme Ndc europee. Fu anche la
principale ragione che indusse l'Italia a sperimentare per prima le nuove idee, tant'è che la riforma Dini consentì ai lavoratori
assunti dopo il 1995, nel seguito chiamati junior, di scegliere fra 57 e 65 anni. Tuttavia, il legislatore italiano è noto
per perdere facilmente la bussola. Infatti, dopo pochi anni la flessibilità fu divelta da provvedimenti grossolani (riforma
Maroni e controriforma Prodi) che entrarono come elefanti nella cristalleria dell'Ndc dettando regole d'uscita del tutto inappropriate.
In realtà, quelle regole furono concepite per i lavoratori senior, assunti entro il 1995, che la riforma Dini aveva escluso,
in tutto o in parte, dal calcolo contributivo. Ma nessuna eccezione venne fatta per i junior (all'epoca lontani dal pensionamento)
per i quali la flessibilità fu opportunamente ripristinata nel 2012 dalla riforma Fornero. Tenendo conto dei progressi compiuti
dalla longevità, in luogo della fascia d'età originaria (57/65) la Fornero optò per una compresa fra il limite inferiore di
63 anni e quello superiore di 66, entrambi agganciati alla longevità e destinati a diventare 64 e 67 da gennaio.
Riguardo ai lavoratori senior, cui le improvvide riforme sopra ricordate avevano assegnato regole d'uscita diverse per categoria e genere, la Fornero delineò percorsi convergenti all'età pensionabile unica di 67 anni nel 2019. La stessa riforma abolì anche le “finestre”, che generavano iniquità differenziando l'età pensionabile, ed estese il calcolo contributivo alla parte dei senior che, nel 1995, ne era rimasta totalmente esclusa potendo vantare anzianità contributive di almeno 18 anni.
Quale altra flessibilità occorre?
L'unificazione delle regole d'uscita per i senior fu in sé meritoria, ma occorreva fare di più evitando discriminazioni rispetto
ai junior. La giovane età dei secondi ha finora impedito confronti, ma i nodi verranno al pettine quando gli assunti a gennaio
del 1996 potranno andare in pensione a 64 anni, mentre i coetanei assunti il mese prima dovranno paradossalmente aspettare
di compierne 67.
Il momento della verità si sta avvicinando?
Come gli altri paesi Ndc, anche l'Italia dovrebbe garantire che, nella delicata fase transitoria, le regole d'uscita siano
uniformi pur in presenza di regole diverse per il calcolo della pensione. Perciò occorre estendere ai senior la facoltà di
anticipare il pensionamento da 67 anni fino a 64. È questa la flessibilità di cui c'è assoluto bisogno per evitare che la
diversità delle regole d'uscita, rigide per gli uni e flessibili per gli altri, vada a sbattere contro il muro dell'insostenibilità
sociale.
Per sostenere questo passaggio serve il ricalcolo contributivo?
Direi di no. Trascurando le complicazioni derivanti dal longevity risk, l'anticipo della quota contributiva non comporta oneri
nel lungo termine in forza della ricordata ‘indifferenza delle età'. La quota retributiva può essere ugualmente anticipata
a costo zero decurtandola della percentuale di cui l'anticipo ne aumenta la durata. Per ragioni tecniche che non posso affrontare
in questa sede, alla decurtazione si perviene con una procedura molto semplice che chiama in causa i coefficienti di trasformazione
dello schema contributivo. Infatti, basta moltiplicare la quota retributiva per il quoziente fra il coefficiente dell'età
al pensionamento e quello dei 67 anni. Il primo è inferiore al secondo cosicché il quoziente è più piccolo dell'unità. L'estensione
del pensionamento flessibile ai senior dovrebbe essere l'occasione da cogliere per meglio garantirlo ai junior. In particolare,
occorre rimuovere gli ostacoli rappresentati dai requisiti non anagrafici, riguardanti sia l'anzianità contributiva (20 anni)
che l'importo della pensione (2,8/1,5 volte l'assegno sociale). Non è accettabile che, per maturarli entrambi, i lavoratori
più fragili, con carriere irregolari e bassi salari, debbano proseguire l'attività oltre il 67esimo anno e fino ad età che
non hanno riscontro in altri paesi. Tantomeno, il sistema deve appropriarsi dei loro contributi se non riescono a farlo.
In questa prospettiva come considerare la pensione d'anzianità?
La pensione d'anzianità è la spina nel fianco del sistema pensionistico italiano. Ciò nonostante, è sopravvissuta a tutte
le riforme benché il requisito contributivo per ottenerla sia stato elevato a più riprese. Attualmente, quello ordinario è
di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e di un anno meno per le donne, mentre ai lavoratori “precoci” ne è riservato uno di 41
anni a prescindere dal genere.
Dice Salvini: dopo 40 anni di lavoro è giusto andare in pensione.
Si consideri un uomo che, alla fine del 2018, ha scelto di cessare l'attività lavorativa a 58 anni, dopo una carriera di 43
cominciata all'indomani dell'obbligo scolastico. Alla sua pensione, che durerà per 40 anni, concorrono due quote. Quella retributiva
sarà percepita per 27 anni nella misura del 72% della retribuzione pensionabile, generalmente superiore all'ultima, mentre
nei successivi 13 sarà percepita dal coniuge superstite nella misura del 43% (il 60% del 72%). La contribuzione che da diritto
alla quota è stata versata nei 36 anni che precedono il 2012 in una misura che, solo da ultimo, ha raggiunto il 33% delle
retribuzioni dell'epoca. Una simile sproporzione fra le prestazioni e i contributi genera privilegio, e quindi disparità tra
lavoratori e oneri per il sistema. La quota contributiva, cui da diritto la contribuzione versata negli 8 anni seguenti, implica
un privilegio d'altra natura, riconducibile al longevity risk che, come ho ricordato, cresce al diminuire dell'età al pensionamento,
ed è quindi molto elevato a 58 anni. In futuro, alle nuove pensioni d'anzianità concorrerà una quota retributiva percentualmente
sempre più piccola e una contributiva sempre più grande. Perciò il privilegio implicito nella seconda prenderà gradualmente
il posto di quello implicito nella prima. Anche a regime, le pensioni d'anzianità continueranno quindi a generare disparità
e oneri.
A tutto ciò i governi dovrebbe dedicare una riflessione scevra dai consueti luoghi comuni che dipingono la pensione d'anzianità come il meritato riposo dei lavoratori di lungo corso. In realtà, si tratta di persone che hanno potuto cominciare la carriera senza ritardi e proseguirla senza interruzioni. Chi deve attendere l'età di vecchiaia ha generalmente avuto una sorte peggiore, perlopiù subendo disoccupazione e lavoro nero, oppure, nel caso delle donne, dovendo conciliare l'attività lavorativa con l'allevamento dei figli.
Quantomeno, la pensione d'anzianità dovrebbe essere assoggettata alla correzione sopra proposta per consentire l'anticipo di quella ordinaria. Cioè la quota retributiva dovrebbe essere moltiplicata per il coefficiente di trasformazione dell'età al pensionamento diviso per quello dei 67 anni. I risparmi potrebbero contrastare il temporaneo aumento di spesa che l'anticipo della pensione ordinaria provocherebbe nel breve periodo (benché senza costi nel lungo).
Il Governo Conte ha fatto scelte diverse.
Nessuna delle misure auspicate è stata mai presa in considerazione dalla politica. L'attuale governo non fa eccezione. Anzi
propone “quota 100” che, a dispetto del nome, in realtà rilancia, anziché sopprimere, la pensione d'anzianità. Infatti, il
requisito contributivo, che le precedenti riforme avevano aumentato, è ridotto a 38 anni, a prescindere dal genere, quando
sia raggiunta la soglia anagrafica dei 62.
E le altre misure? Che ne pensa della pensione di cittadinanza?
Occorre ricordare che il trattamento minimo, cui le pensioni sono integrate se inferiori, fu abolito dalla riforma Dini, fatti
salvi i trattamenti allora in essere e quelli dei lavoratori senior nella fase transitoria. Fu una scelta corretta perché
lo Stato deve assistere non solo i pensionati ma la generalità degli anziani in stato d'indigenza, e deve farlo con uno strumento
universale, rivolto a tutti, senza “occhi di riguardo” per nessuno. Allo scopo, fu istituito l'assegno sociale, cioé un reddito
minimo garantito ai cittadini che hanno superato l'età alla quale si consegue la pensione di vecchiaia. Il meccanismo è semplice:
all'anziano che percepisce un reddito (da pensione e/o d'altra natura) inferiore all'assegno, lo stato riconosce la differenza.
Fu stabilito che l'assegno sociale, attualmente di 453 €, fosse inferiore al trattamento minimo, attualmente di 507 €, cosicché
il diritto dei pensionati al secondo li ha finora esclusi dal primo. Così non sarà per i lavoratori junior che al trattamento
minimo non avranno più diritto.
Il Governo dimentica questo “quadro di chiarezza” istituendo una sorta di “superminimo” da 780 euro che chiama “pensione di cittadinanza”. I beneficiari del trattamento minimo esistente avranno quindi diritto a una seconda integrazione. In altre parole, il divario fra 780 euro e la pensione a calcolo sarà paradossalmente colmato in due tappe: il trattamento minimo colmerà una parte e la pensione di cittadinanza l'altra. In prospettiva, non è chiaro cosa accadrà ai lavoratori junior la cui pensione risulti inferiore a 780 euro.
Forse il divario sarà interamente colmato dalla pensione di cittadinanza escludendo l'assegno sociale?
Se, come sembra, i 780 euro saranno garantiti anche a chi percepisce l'assegno sociale, l'integrazione in due tappe riguarderà anche tali soggetti? Oppure l'assegno sociale scomparirà perché “riassorbito” dalla pensione di cittadinanza? Il pasticcio è aggravato dal fatto che la seconda è riservata agli ultrasessantacinquenni, mentre il diritto al primo nasce più tardi, al compimento dell'età di vecchiaia. Infine, “tutto tace” rispetto al caos delle maggiorazioni sociali che, con l'occasione, si sarebbe potuto risolvere. L'unica certezza è che la pensione di cittadinanza accresce la commistione fra previdenza e assistenza oltre a diventare un formidabile incentivo all'evasione contributiva. Tanto più nella prospettiva che molte pensioni future non potranno, purtroppo, superarla di molto.
Intanto con la legge di Bilancio è scattato il taglio delle pensioni d'oro
Dopo mesi nei quali il Ministro del Lavoro aveva annunciato interventi mirati alle sole pensioni non giustificate dai contributi,
è stata infine presa la decisione di tagliare indiscriminatamente tutte quelle che superano i 100 mila euro l'anno. Lo strumento
prescelto è il ‘contributo di solidarietà' che sarà progressivo, con aliquote dal 15% al 40%, e durerà dal 2019 al 2023 estremi
compresi. Sarà quindi rilevante e duraturo, ben oltre i limiti indicati dalla Corte Costituzionale. In caso di ricorso, la
Corte non potrà inoltre trascurare che il nuovo contributo segue quelli rimasti in vigore fra il 2012 e il 2017. Nè deve passare
inosservato che, per onorarne il nome che porta, il contributo dovrebbe essere destinato a scopi sia meritevoli sia interni
al “perimetro previdenziale”. Mentre la solidarietà è richiesta per consentire il pensionamento in età inferiore alla media
europea e finanziare misure assistenziali che competono alla fiscalità generale.
E poi c'è il nuovo raffreddamento dell'indicizzazione.
I governi italiani non hanno mai riconosciuto che lo schema contributivo deve camminare su due gambe: un metodo per calcolare
le pensioni e uno per indicizzarle. Infatti, dopo 23 anni dalla nascita, l'NDC italiano resta un'anatra zoppa che pretende
di reggersi solo sul primo, come se la sostenibilità potesse paradossalmente prescindere dal secondo. Con l'eccezione di chi
parla, duole dire che neppure gli esperti italiani si sono spesi nello sforzo di additare il paradosso. L'ultimo mio ‘tentativo
pubblico' risale all'intervista rilasciata a Il Sole24 Ore il 24 aprile dello scorso anno.
Nella generalità dei paesi che hanno scelto l'NDC, il metodo di indicizzazione “contributivo” è stato esteso alle pensioni retributive per evitare, nella fase transitoria, dicotomie socialmente insostenibili. L'Italia ha inconsapevolmente fatto la scelta opposta. Infatti, la riforma Dini non si pronunciò sull'argomento, implicitamente ammettendo che l'indicizzazione delle future pensioni contributive non sarebbe stata diversa da quella, ai prezzi, in vigore dal 1992 per quelle retributive. Dal 2001 il recupero dell'inflazione è totale solo per le pensioni inferiori al triplo del trattamento minimo e parziale per quelle superiori. Le regole riguardanti queste ultime sono ripetutamente cambiate. Il Governo Conte ha sostituito quelle in scadenza nel 2018 con altre che scadranno nel 2021. Come le vecchie regole, così le nuove prevedono recuperi dell'inflazione “progressivi”, cioè decrescenti al crescere della pensione. Per quelle superiori a 9 volte il trattamento minimo è previsto un recupero del 40%. Il contributo di solidarietà si applicherà anche agli aumenti nominali generati dall'indicizzazione ai prezzi, col risultato che le pensioni d'oro potranno recuperare l'inflazione in misura perfino inferiore al 40%.
L'accennato metodo contributivo per indicizzare le pensioni è universale, nel senso che non le discrimina in base all'importo. Del resto, essendo le differenze meritate, sarebbe iniquo lasciare che indicizzazioni progressive le riducano col passare del tempo. Ho ricordato le ragioni per cui il ricalcolo contributivo potrebbe non cambiare la gran parte delle attuali pensioni d'oro. L'indicizzazione al 40% si configura quindi come un secondo “contributo di solidarietà”, altrettanto contrario alla logica contributiva quanto il primo.
Come giudica lo sganciamento dei requisiti anagrafici e contributivi dalla speranzate di vita?
Sia pure mal congegnato sotto il profilo tecnico, l'aggancio alla longevità dei requisiti anagrafico/contributivi è uno dei
pochi “fiori all'occhiello” della legislazione previdenziale italiana, peraltro da ascrivere ad un governo a partecipazione
leghista. Tant'è che suscita interesse in altri paesi europei, a cominciare dalla Svezia, dove potrebbe essere introdotto
a breve termine. Anziché perfezionarlo, il Governo ha pensato bene di abolirlo, o almeno di saltare un passaggio. Tuttavia,
è forte il rischio che il salto sia “mortale” perché il successivo aggiornamento dei parametri, dovendo recuperare il precedente,
sarebbe rilevante e politicamente oneroso.
Insomma la controriforma gialloverde va nella direzione sbagliata?
La pioggia di provvedimenti non affronta alcuno dei tanti problemi che tuttora affliggono lo schema contributivo italiano.
Anzi, allontana le prospettive di soluzione. Il fenomeno, politicamente interessante, non è affatto nuovo perché meglio non
hanno saputo fare i governi precedenti. I provvedimenti, grandi e piccoli, varati dopo il 1995 sono quasi trenta, molti dei
quali hanno “smontato” i precedenti. È curioso che la “quota 100” del Governo Conte intenda oggi superare lo “scalone Fornero”,
come la “quota 90” del Governo Prodi intese superare lo “scalone Maroni”. Corsi e ricorsi di vichiana memoria non aiutano
il sistema pensionistico italiano a progredire.
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