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Da Maduro al reddito, Pd in ordine sparso

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L’eterno congresso e il vuoto di leadership

Da Maduro al reddito, Pd in ordine sparso

AAA leader del Pd cercasi disperatamente. L’ultimo caso è quello del sì del Parlamento di Strasburgo alla risoluzione che riconosce Guaidò come presidente legittimo ad interim del Venezuela. Gli europarlamentari della Lega e del M5s si sono astenuti e quelli del Pd... pure. O meglio, non tutti ma solo una parte. La maggioranza, precisa subito la capogruppo dem a Strasburgo Patrizia Toia, «ha votato a favore della risoluzione proposta sulla situazione in Venezuela seguendo le indicazioni del gruppo “Socialisti e democratici”». Per poi aggiungere che «alcuni nostri parlamentari hanno legittimamente deciso di astenersi».

Ma chi sono questi parlamentari, subito accusati di essere pro Maduro? Gli astenuti sono Goffredo Bettini, Brando Benifei, Cecile Kyenge, Andrea Cozzolino ed Elena Gentile. Presenti in Aula ma non votanti, inoltre, Roberto Gualtieri e Daniele Viotti. Qualcuno fa maliziosamente notare che quasi tutti questi europarlamentari sono politicamente vicini al candidato alla segreteria del Pd Nicola Zingaretti, appena uscito vincente dal congresso tra gli iscritti e in attesa di confermare la sua leadership alle primarie aperte del 3 marzo prossimo.

«Sono molto perplesso e soprattutto preoccupato per il voto che diversi parlamentari del Pd hanno espresso al Parlamento europeo insieme ai 5 Stelle e alla Lega sul Venezuela, in netta contrarietà con gli orientamenti espressi ieri dal Pd in Senato - dice il centrista Pier Ferdinando Casini, eletto con il Pd in Senato -. Il tema è ineludibile per i candidati alla segreteria del Pd e soprattutto per Zingaretti, i cui intimi amici hanno fatto questa scelta a Strasburgo. Mi auguro che nelle prossime ore ci sia un chiarimento, perché la complicità con il regime di Maduro non è accettabile per i democratici».

Il rumore rimbalza insomma da Strasburgo a Roma. Tanto che il governatore del Lazio e segretario in pectore del Pd Zingaretti salta sulla sedia e si affretta a ricordare la sua posizione in proposito, già espressa nei giorni scorsi: «La situazione in Venezuela è preoccupante. Maduro ha la responsabilità di aver stremato il Paese e averlo condotto sull’orlo della guerra civile».

Se da Strasburgo si passa al Parlamento italiano la situazione non migliora. In attesa che il decretone su reddito di cittadinanza e quota 100 arrivi in Aula il Pd si è già esercitato nel gioco dell’ordine sparso: alcuni parlamentari della sinistra orlandiana propongono addirittura di votare in favore del reddito in quanto misura sociale che ricorda il Rei (reddito di inclusione) introdotto dai governi del Pd; mentre altri, renziani, hanno aderito all’idea lanciata da Sandro Gozi di raccogliere le firme per il referendum abrogativo.

Un certo sbandamento si avverte infine anche sulla riforma costituzionale voluta dal M5s che introduce nel nostro ordinamento il referendum propositivo. Al momento la linea prevalente nel gruppo Pd della Camera, dove il sì al testo è atteso per metà febbraio, è l’astensione. Molti emendamenti delle opposizioni sono stati accolti - è il ragionamento - ma restano dei nodi irrisolti, a cominciare dalla possibilità di fare referendum su leggi di spesa e tributarie. Ma non manca chi valuta la possibilità di votare contro, almeno a sentire le perplessità di un big come Paolo Gentiloni: «Apprezzo il lavoro fatto per limitare il danno. Ma questo non può indurci ad avallare un’operazione che comunque finisce per indebolire la democrazia parlamentare...».

Il meno che si possa dire è che al maggior partito d’opposizione italiano serve un leader nel pieno esercizio delle sue funzioni. E qui non aiuta in primis lo statuto del Pd, troppo farraginoso: si possono calcolare quattro mesi pieni dal momento in cui si è dimesso il segretario reggente Maurizio Martina, il 30 ottobre scorso, al momento in cui si faranno le primarie che chiuderanno il lunghissimo congresso, il 3 marzo prossimo.

Quattro mesi in cui il Pd non ha di fatto voce. Se a questo si aggiungono le complicate dimissioni dell’ex leader Matteo Renzi (annunciate subito dopo la sconfitta elettorale ma subito congelate nella fase di formazione del governo e di fatto operative solo dai primi di luglio) e il lento avvio della fase congressuale (Martina ha a sua volta lasciato passare quattro mesi) si può dire che il Pd è da quasi un anno senza un leader e una linea chiari. Un po’ troppo per un partito che ambisce a costruire l’alternativa al governo giallo-verde.

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