Chi governa di solito non si trova a suo agio con l'oggettività dei dati statistici. «Credo solo alle statistiche che manipolo personalmente» è un motto che viene attribuito a Winston Churchill. E un dato come quello appena fornito dall’Istat, che certifica l’ingresso in recessione (sia pure “tecnica”) del nostro paese dopo cinque anni di modesta crescita, non è semplice da gestire. La flessione del Pil pari allo 0,2 per cento nel quarto trimestre del 2018 si è infatti immediatamente tradotta in un’eredità pesante per il 2019, iniziato con una variazione acquisita negative e pari a -0,2 per cento.
Dunque è comprensibile che il presidente del Consiglio dica: va così, l'economia rallenta, non solo in Italia, guardiamo al
futuro. Lasciando in secondo piano la necessità di comprendere le cause di questo rallentamento. È davvero solo l’effetto di una
gelata internazionale? O ci sono ferite auto-inferte, come quello spread da incertezza politica lasciato salire fin sopra
i 300 punti, che ha fatto irrigidire l’offerta di credito e precipitato nello sconforto le imprese, bloccando gli investimenti?
Senza contare il fatto che sono assai differenziate, e non solo per il diverso impatto sui conti pubblici, le stime che alla luce dei nuovi dati si possono fare sull’andamento del 2019 e dei due anni successivi. Infatti per raggiungere
quel +0,6 per cento di crescita stimato ad esempio da Fmi e Banca d’Italia è necessario che nella seconda parte dell’anno
il paese ritrovi un passo da bersagliere, in rapporto ai suoi standard passati: tra giugno e dicembre serve cioè una velocità
annua di sviluppo superiore all’1,2 per cento. Non a caso, chi, come Ref-ricerche, per le sue stime considera la distanza
relativa che il nostro paese ha sempre mantenuto negli scorsi anni rispetto ai partner europei, prevede una crescita pari
a zero per l’anno in corso.
Il calcolo, in fondo, è semplice. Se la Germania, paese verso il quale si dirigono 53 miliardi di esportazioni italiane, si busca il raffreddore e prevede
di non riuscire a far aumentare il proprio prodotto interno più dell'uno per cento, per l'economia italiana, che negli anni
recenti è sempre crescita un punto in meno di quella tedesca, si profila di nuovo un elettroencefalogramma piatto.
Se davvero si volesse guardare al futuro e non all'autoreferenzialità della politica, ossessivamente concentrata in Italia
- come nel resto d'Europa - sulla scadenza elettorale di maggio, sarebbero due le cose da fare subito.
La prima è schiacciare l'acceleratore sugli investimenti a livello europeo, perché, com'è stato autorevolmente osservato, è un delitto adottare una strategia di austerity quando si ha a disposizione
lo spazio fiscale per sostenere con forza la crescita. E la Germania ha certamente la possibilità di usare una parte del suo
ampio avanzo delle partite correnti per sostenere la propria domanda interna e quella continentale. La seconda cosa è ripensare
il mix della politica economica in Italia e varare al più presto una manovra che realmente sostenga un potenziale di crescita
in costante riduzione.
Tutti gli osservatori indipendenti hanno messo in evidenza che le due Cenerentole dell'intervento di bilancio appena varato sono l'istruzione e gli investimenti pubblici, fattori essenziali per lo sviluppo di lungo periodo. Gli investimenti, in particolare, sono diminuiti tra il 2009 e il 2017 di ben 20 miliardi. E quei 33 miliardi in tutto che le amministrazioni pubbliche italiane investono per infrastrutture fanno figurare il nostro paese agli ultimi posti nella classifica europea. Però, tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, compreso l'attuale, hanno preferito puntare sul sostegno dei consumi (i consumatori votano).
E il risultato è che anche nel 2019 la spesa pubblica in conto capitale appare destinata a scendere di 2 miliardi, come stima l'Ufficio parlamentare di bilancio. Se poi, dopo le elezioni, toccherà tagliare sui conti pubblici, per evitare di finire nel mirino dei mercati finanziari, potrebbero essere messi a rischio anche gli incrementi attualmente previsti per i prossimi anni, pari a 6,2 miliardi nel 2020 e 7,1 miliardi nel 2021. Con buona pace di tutte le ricerche economiche che reputano l'impatto sul reddito degli investimenti pubblici la medicina più efficace in tempi di crisi.
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