Nell'affannosa ricerca delle colpe più che delle cause, le varie interpretazioni offerte dal governo all'avvio della recessione puntano sul rallentamento dell'economia europea o alle colpe dei «governi precedenti che hanno mentito». Entrambe le letture hanno un problema. L'economia europea, in base ai dati diffusi da Eurostat, continua a crescere, e la distanza fra le dinamiche italiane e quelle dell'Eurozona rimane inalterata. E la crescita del 2017, +1,6%, si è rivelata superiore a quella prevista dal governo Gentiloni sia nel Def di aprile (+1,1%) sia nella Nota di aggiornamento di ottobre (+1,5%).
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Chiudendo il discorso sulle “colpe”, poco utile, si può sostenere che le interpretazioni governative sono quanto meno parziali, perché è vero che l'Italia non è mai uscita da una debolezza strutturale che la aggancia ai ritmi di crescita europea, e che la congiuntura internazionale si è infiacchita. Ma aprendo l'analisi sulle cause, più interessante, diventano evidenti le componenti interne della frenata del Pil.
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Investimenti privati
Nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione delle tabelle Istat l'enfasi della politica si è concentrata sul rilancio
degli investimenti pubblici. Ma sono i numeri sugli investimenti privati, quelli delle imprese, a far suonare gli allarmi
più preoccupanti. In base alla “Congiuntura Flash” appena diffusa da Confindustria, la fiducia delle imprese cala anche a
gennaio (lo ha detto anche l'Istat), e peggiorano le valutazioni delle imprese sulle condizioni per investire. Per tradurre
queste percezioni in cifre basta spulciare l'ultimo Bollettino di Bankitalia, quello che prevedendo una (ottimista) crescita
dello 0,6% nel 2019 ha fatto infuriare una parte della maggioranza. Nelle previsioni di Via Nazionale, gli investimenti delle
imprese in beni strumentali, cresciuti del 5,2% nel 2018, invertiranno bruscamente la rotta quest'anno (-0,3%) e il prossimo
(-1,2%), per riprendere a un anemico +0,5% solo nel 2021. Non è difficile vedere un legame fra quest'altalena e la manovra,
che ha mandato in soffita il super-ammortamento e rimodulato gli incentivi dell'iper-ammortamento (beni tecnologici) tagliando
gli sconti destinati alle imprese più grandi.
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Investimenti pubblici
Il «rilancio dei cantieri» indicato dal premier Conte e il decreto taglia-tempi rilanciato dal vicepremier Salvini, in non
perfetta sintonia su tempi e modi con Palazzo Chigi, traducono l'intenzione del governo di far ripartire la spesa pubblica
in conto capitale. Gli investimenti pubblici sono il grande malato d'Italia, sono scesi in dieci anni dal 3% all'1,9% del
Pil. E il loro mancato rilancio è uno dei fallimenti più evidenti del governo precedente, che in nome di questo obiettivo
aveva ottenuto anche una parte di “flessibilità” dalla commissione europea. Sprecata. Anche qui però i numeri della manovra
sollevano qualche incognita. Per rientrare nell'obiettivo di deficit al 2%, il ripensamento della legge di bilancio ha spostato
gran parte delle risorse aggiuntive sul 2020, quando sono coperte dalle maxi-clausole Iva. La versione originaria della manovra,
calcola l'Ufficio parlamentare di bilancio, aggiungeva 1,8 miliardi alla dote 2019, ma quella finale ha tagliato 2 miliardi
spostandoli agli anni successivi. L'effetto espansivo rispetto al tendenziale, di conseguenza, nelle previsioni è nullo.
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Consumi interni
Le speranze di ripresa si aggrappano allora all'unico indicatore anticipatore rimasto positivo, quello della fiducia delle
famiglie. Gli economisti spiegano che questo dato reagisce più lentamente rispetto alla congiuntura, perché è collegato al
tasso di occupazione che a sua volta è figlio delle dinamiche economiche del passato recente. L'occupazione, in altre parole,
tende a scendere solo dopo qualche mese di frenata della crescita, così come comincia a salire solo quando la crescita si
rafforza.
In ogni caso, sia Bankitalia sia l'Upb, nonostante le critiche a Cinque Stelle, affidano in realtà alla possibile spinta del reddito di cittadinanza ai consumi interni fran parte del flebile effetto espansivo della manovra, intorno allo 0,3% del Pil. Ma anche qui non mancano le incognite. Due in particolare: l'avvio effettivo della macchina nei tempi previsti dal governo, e le clausole Iva più alte della storia (23,1 miliardi nel 2020 e 28,8 nel 2021) che pendono sui prossimi anni. Minacciando prima di tutto i consumi.
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