Italia

Tra promesse e realtà un anno dopo il cambiamento

  • Abbonati
  • Accedi
governo gialloverde

Tra promesse e realtà un anno dopo il cambiamento

Le elezioni del 4 marzo 2018 sono state l’equivalente di un sommovimento sociale. Esse hanno registrato il successo delle due forze politiche (Cinque Stelle e Lega) che avevano dato voce al malessere diffuso nel Paese. Un malessere cresciuto costantemente dal novembre 2011, quando il governo politico in carica (il governo Berlusconi) fu sostituito da un governo tecnico (il governo Monti). È in quel passaggio storico che vanno cercate le ragioni della convergenza tra le due forze politiche che sono oggi al governo. Esse furono le uniche ad opporsi al governo Monti (da dentro e da fuori il Parlamento) e all’idea che l’Italia doveva sottostare alle regole di bilancio che tengono insieme l’Eurozona. Dietro la rivoluzione del 4 marzo c’è una contrastata (e finora irrisolta) relazione tra l’Italia e l’Europa integrata. Se non si capisce questo problema strutturale, non si potrà venire a capo del malessere italiano. Vediamo meglio.

Il governo Monti fu necessario per salvare l’Italia da un possibile default finanziario. Non fu un colpo di stato, né un’operazione anti-parlamentare. Seppure costituito di personale non legato ai partiti politici, quel governo ricevette il voto largamente maggioritario delle due camere del Parlamento. Non solo, beneficiò anche di un robusto consenso sociale, tanta era la paura che lo stato non potesse più pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici o che i risparmi degli italiani, conservati nelle banche, potessero deprezzarsi. Quel governo si impose perché la discrasia tra la struttura del bilancio pubblico italiano e la struttura della regolamentazione dell’Eurozona non era più gestibile. Occorreva introdurre (in gran fretta) riforme strutturali (a cominciare da quella del sistema pensionistico) che riportassero l’andamento della spesa pubblica entro un orizzonte di compatibilità con le regole dell’Eurozona.

E così è avvenuto (evitando, peraltro, all’Italia un destino greco). Se una larga maggioranza del Parlamento (oltre che della classe dirigente del Paese) ritenne che occorresse ritornare dentro i parametri del Patto di stabilità e crescita, una parte consistente della società italiana finì però per sostenere i costi di quel rientro. Da lì nascono i problemi emersi successivamente. La visione del governo Monti non era diversa da quella dei governi precedenti, sia di centro-destra che di centro-sinistra. Dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel 1992, nessun governo aveva mai messo in discussione la decisione dell’Italia di far parte dell’Eurozona. Il governo Monti riaffermò quella decisione e i successivi governi (Letta, Renzi e Gentiloni) la confermarono.

La crisi finanziaria esplosa nel 2009, però, ha reso quella decisione molto più controversa. I governi post-Monti hanno dovuto operare dentro un sentiero stretto (per usare l’espressione di Pier Carlo Padoan, da ultimo nel libro-intervista curato da Dino Pesole), in quanto delimitato dal nostro debito pubblico a rischio di sostenibilità (da un lato) e dalle regole macro-economiche dell’Eurozona (dall’altro lato). Un sentiero stretto che si è cercato di allargare attraverso riforme strutturali da cui derivare le risorse per politiche inclusive. Tuttavia, le riforme strutturali producono benefici nel medio periodo, mentre i costi sociali da esse generati sono immediatamente percepiti. Di qui l’ascesa elettorale dei Cinque Stelle e della Lega. Nel marzo scorso, esse hanno dato rappresentanza proprio a coloro che avevano sostenuto quei costi (o che temevano che li avrebbero sostenuti). Una rappresentanza legittimata dal fatto che esse avevano di già contrastato il ritorno, con il governo Monti, alla politica del sentiero stretto. Tant’è che nella precedente legislatura (2013-2018), quelle forze politiche si erano trovate frequentemente in accordo nel mettere in discussione il paradigma dominante (che assume come inevitabile la partecipazione dell’Italia all’Eurozona). L’opposizione alle riforme strutturali portate avanti dai governi di centro-sinistra, così come alla proposta di riforma costituzionale del governo Renzi, finì per accelerare la convergenza tra i due partiti verso un comune esito sovranista. La denuncia dei vincoli europei (e dei governi precedenti che li avevano accettati) ha quindi consentito ai due partiti di diventare maggioranza elettorale nel Paese. Tuttavia, una volta andati al governo, le promesse e la realtà hanno parlato lingue diverse. Dall’ottobre scorso è stato un sistematico rinculare, da parte del governo, rispetto ai suoi proclami elettorali. Il governo ha dovuto rivedere più volte la sua proposta di bilancio, prendendo atto dei vincoli del nostro debito pubblico, oltre che delle richieste dei suoi elettori. L’ esito (per ora) è una politica che non aiuta il Paese a crescere. Con la conseguenza che sono emerse divisioni all’interno del governo e si sono manifestati i primi smottamenti elettorali della coalizione.

Se le cose stanno così, allora c’è da preoccuparsi per il futuro dell’Italia. Infatti, non c’è un futuro per quest’ultima se deve scegliere tra una politica determinata da vincoli ed una politica che rifiuta ogni vincolo. La seconda è economicamente irrealistica, la prima è socialmente impraticabile. Pur non mettendo in discussione la nostra partecipazione all’Eurozona, occorre quindi riformarne la governance. Ci sono riforme che dobbiamo introdurre in Italia (e che spetta a noi introdurre), come quelle per alzare il rendimento del nostro sistema amministrativo, giudiziario, istituzionale. Ma vi sono riforme che occorre introdurre a livello dell’Eurozona (e che richiedono il sostegno degli stati principali che ne fanno parte). L’Eurozona deve avere una capacità fiscale autonoma con cui aiutare gli stati che, introducendo riforme strutturali, debbono sostenere nell’immediato i costi sociali di queste ultime. I Paesi del Nord debbono riconoscere la diversa struttura di political economy dei Paesi del Sud. La convergenza non consiste nel trasformare le economie dei secondi in repliche di quelle dei primi, ma nell’individuare un punto di compatibilità tra le loro divergenze. Insomma, la rivoluzione del 4 marzo scorso ha scoperchiato un vaso di Pandora. Anche se il mito lo escluderebbe, una nuova politica potrebbe in realtà rinchiuderlo.

© Riproduzione riservata