«L’ambizione è di diventare il primo partito in Europa. Che cosa ne pensa Di Maio? Non commento, non seguo le polemiche locali». Il vicepremier Matteo Salvini ha scelto ancora Milano per il lancio della “Europa del buon senso”: una forza politica che raccolga tutte le sigle sovraniste su scala continentale, da Alternativa per la Germania al Raggruppamento nazionale di Marine Le Pen.
Al tavolo con lui Jörg Meuthen (Alternativa per la Germania),Olli Kyoto (i Veri finlandesi) e Andres Vistisen, leader del Partito popolare danese. Il manifesto programmatico, per ora, si ferma a una serie di linee comuni: difesa delle frontiere esterne («Noi sapremo come usare bene i 10mila uomini di Frontex», dice Salvini), difesa del Made in Europe («Bisogna rivedere i trattati che lo penalizzano»), maggiori poteri ai governi.
Sullo scacchiere internazionale, Salvini ribadisce la contrarietà alle sanzioni alla Russia, non mette in dubbio il rapporto con gli Stati Uniti ed esclude qualsiasi apertura alla Turchia: «A Bruxelles danno sanzioni all’Ungheria e poi finanziano la Turchia - dice - Per noi, la Turchia non è non sarà mai Europa».Non c'è Marine Le Pen, come da attese, anche se Salvini torna a spiegare che non si tratta di uno sgarbo istituzionale. «L’ho detto e lo ripeto per la sedicesima volta - sbotta a una domanda della stampa - Oggi parlerò io a nome di tutti i partiti, l’appuntamento è il 18 maggio a Milano». In quella data è prevista una manifestazione in piazza Duomo per la chiusura della campagna elettorale in vista del voto del 23-26 maggio.
Migranti: l’obiettivo è frenare, non distribuire
Al di là degli annunci, però, il vicepremier deve dettagliare per la prima volta i contenuti di un gruppo politico che cerca
di fare sintesi fra le varie forze di destra dell'Eurocamera: Europa delle nazioni e delle libertà (quello della Lega), Europa
delle libertà e della democrazia diretta (la famiglia di Alternativa per la Germania), Conservatori e riformisti (il gruppo
di provenienza di Partito popolare danese e Veri Finlandesi). Il collante principale è sempre il «recupero della sovranità
nazionale», che Salvini declina sopratutto sulla questione migratoria. C'è chi fa notare che l’argomento rischia di creare
spaccature fra forze politiche che appartengono ad aree geografiche diverse, ma il vicepremier tira dritto: «Non vogliamo
ridistribuire i migranti, ma controllare le frontiere», taglia corto, cercando l’assist dei tre leader che hanno deciso di
presenziare con lui a Milano. «Il pericolo principale è il terrorismo islamico - dice - Ci sono poi dei gruppi di estrema
destra ed estrema sinistra, ma sono numericamente pochi e controllati». Emerge la suggestione di una sua candidatura a sptizenkandidat, candidato alla presidenza della Commissione europea. Gli altri leader lo lusingano («Sarebbe sicuramente meglio di quello
di prima», alludendo a Juncker), ma per ora non ci sono conferme o smentite. Il vicepremier insiste nel presentarsi come un
semplice portavoce del gruppo che vuole «rinnovare l'Europa». Sì, ma con quale peso? Alcune stime si erano spinte a prevedere
100-120 seggi, una cifra che equivarrebbe comunque alla minoranza in un Parlamento con 705 scranni. «Non siamo qui a fare
previsioni».
Il nodo alleanze e...la flat tax
Previsioni o meno, Salvini sa che la sua «Europa del buon senso» dovrà dialogare con partiti rimasti fuori dal manifesto ufficializzato
oggi. Si spera ancora nell'asse con Fidesz di Viktor Orbán e, indirettamente, con alcune correnti del Partito popolare europeo:
il gruppo che ospita il primo ministro ungherese e altre sigle occasionalmente in sintonia con la Lega, come il Partito popolare
austriaco di Sebastian Kurz. «I popolari faranno quello che vorranno», dice Salvini ai cronisti, anche se un'intesa con Orbán
imporrebbe per sua natura un dialogo con il Ppe. Lo stesso che dovrà essere imbastito con i Conservatori e riformisti, il
gruppo di destra che vede fra le sue file i polacchi di Diritto e giustizia. Anche se il vicepremier insiste a parlare di
Europa, alcune domande virano sulla politica domestica. A partire dall’incognita flat tax, il provvedimento-simbolo che rischia
di scomparire dal Def. «L’idea rivoluzionaria della flat tax è che uguale per tutti, non può esistere una flat tax progressiva»,
dice, salvo smussare un po' i toni e limitarsi a un augurio programmatico: sperare che la tassa piatta «resti nel Def».
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