La trimurti ministeriale – vale a dire il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i due vice, Luigi Di Maio e Matteo Salvini – si vanta di essere a capo di un governo del cambiamento. Sarà forse per questo che rispetto al passato le anomalie istituzionali non finiscono mai.
Ai tempi della Prima Repubblica, ma la Costituzione è rimasta pressappoco la stessa, i Consigli dei ministri duravano ore e ore. Perché i partiti della coalizione dovevano trovare la quadra. Con la Seconda Repubblica, nata grazie al sartoriano Mattarellum, tutto è andato un po’ più spedito perché i presidenti del Consiglio si sono rimpannucciati. Adesso i Consigli dei ministri, e Sabino Cassese si è preso la briga di cronometrarne la durata, più che ad horas si riuniscono sovente ad minutos.
Ma ogni regola, si capisce, ha le sue brave eccezioni. È capitato di recente un Consiglio dei ministri che, in mancanza di meglio, aveva all’ordine del giorno un solo punto: “Varie ed eventuali”. Così, tanto per ammazzare il tempo discutendo del più e del meno. Lunedì, poi, abbiamo avuto un’altra novità. Difatti il Consiglio dei ministri si è riunito a spizzichi e bocconi. È iniziato alle 16,09. Presieduto non da Conte ma da Di Maio, mentre il verbale è stato redatto dal ministro Riccardo Fraccaro. Perché il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, reduce dalla sfuriata pubblicata da “La Stampa”, ha preferito confermare un altro impegno. Ma la seduta è durata appena quattro minuti. Ripresa alle 20,55, stavolta è stata presieduta da Conte e Di Maio ha fatto da segretario. Non è finita. La seduta è stata di nuovo sospesa alle 23,10 per essere ripresa a mezzanotte e 22 minuti. Ma, sorpresa, è durata un solo minuto.
Dal punto di vista costituzionale merita una sottolineatura l’andamento carsico di quest'ultimo Consiglio dei ministri. Che – a riprova che melius abundare quam deficere – ha un’ennesima anomalia. Fino a poco tempo fa si è registrato il caso di decreti legge formalmente approvati (si fa per dire) dal Consiglio dei ministri e inviati al Quirinale per l’emanazione dopo diverse settimane. Con tutto comodo, si capisce. E questo perché, una volta deliberati pro forma dal Consiglio, tutto il resto era ancora da fare con un frenetico viavai tra i ministeri più o meno competenti.
Adesso abbiamo il bel caso di decreti a rate. Ecco che il Consiglio dei ministri di lunedì ha iniziato l’esame del decreto sicurezza caro a Salvini e del decreto in materia di famiglia che sta a cuore a Di Maio. Solo un prossimo Consiglio continuerà senza fretta il loro esame. Ma se così stanno le cose, abbiamo la prova provata che questi benedetti decreti – rinviati dall’oggi al domani e, magari, da domani a dopodomani – non hanno quei requisiti di straordinaria necessità e urgenza prescritti dalla Costituzione.
In attesa di Godot, del giudizio di Dio rappresentato dalle elezioni di domenica, non si muove una foglia. Il do ut des di antica memoria è stato rovesciato come un guanto dai duellanti che si guardano in cagnesco. Tu non dai una cosa a me e io, per tigna, non do una cosa a te. Ma se il governo piange, il Parlamento non ride. Piaccia o no, il governo è il comitato direttivo del Parlamento. E se il governo è in panne, lo è di conseguenza anche il Parlamento. Mai come in questa legislatura si è riunito così poco e ha contato poco o nulla. La verità è che ha da passà ‘a nuttata. Solo a partire da lunedì sapremo se le baruffe chiozzotte sono alimentate dall’approssimarsi delle elezioni o sono invece l'anticamera della crisi ministeriale. Quando la parola tornerà, se Dio vuole, a Sergio Mattarella.
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