Lo scenario industriale dell'auto è segnato da due spinte contrapposte e divergenti: la coraggiosa attitudine combinatoria fra soggetti deboli – è il caso di Fca e di Renault – e la prudente riperimetrazione delle attività di singoli gruppi, come stanno facendo con sfumature differenti ma metodo identico General Motors, Ford, Daimler, Bmw e Volkswagen: una riperimetrazione che ha l'obiettivo di tagliare i costi operativi, ridurre il personale, investire nell'elettrico e nella guida autonoma, mitigare gli effetti della decostruzione delle catene globali del valore provocata dalle guerre commerciali in corso fra i due blocchi, americano e cinese.
L'industria dell'auto è terremotata in sé e per sé dalla transizione tecnologica e dalla guida autonoma ed è strutturalmente minata alle fondamenta dall'inefficienza del capitale di un comparto che brucia risorse alla velocità della luce, come già descritto il 29 aprile del 2015 a New York da Sergio Marchionne nel suo documento agli analisti “Confessions of a Capital Junkie”, “Confessioni di un drogato di capitale”. Nissan è a metà della linea che congiunge i due estremi – la ricerca di aggregazioni e la rifocalizzazione - di questo scenario. E l'orientamento che prenderà domani – se considerare o no le ipotesi prospettate da Fca e da Renault – muterà in maniera radicale la sorte della fusione fra le due società europee. In questa doppia opzione, le determinanti strategiche e le cifre geo-politiche sono assai significative.
Nissan è in una posizione particolare perché è stata protagonista di una sorta di reverse takeover industriale. E' stata salvata
dai francesi nel 1999 e, anche oltre ad avere beneficiato di una violenta riduzione dei costi e di una organizzazione ansiogena
e ossessiva che rappresentano la vera eredità manageriale di Carlos Ghosn, ha compiuto cicli di investimenti, elaborato strategie
di ricerca e costruito un marketing sull'elettrico, esteso la sua presenza in tutta l'Asia che resta il mercato a più alti
tassi di crescita, definito politiche di prezzo che alla fine hanno garantito marginalità industriali più alte e finanza di
impresa migliore rispetto alla Renault. E, tutto questo, nonostante nell'ultimo periodo abbia incontrato più di una difficoltà
di mercato e abbia registrato una performance borsistica negativa: è vero che da inizio anno Nissan Motor, quotata a Tokyo,
ha perso il 15% del suo valore, mentre l'indice di settore internazionale S&P Global 1200 Auto ha guadagnato l'1%; è però
altrettanto vero che negli ultimi venti anni quest'ultimo è cresciuto del 18%, mentre la casa automobilistica giapponese ha
visto il suo valore lievitare del 62 per cento.
Se domani Nissan dicesse un no secco, rimarrebbe un nuovo aggregato pan-europeo, che dovrà lavorare sulla cancellazione delle
duplicazioni, sull'efficientamento degli stabilimenti Renault (di gran lunga peggiori qualitativamente di quelli italiani),
sul grado di utilizzo degli stabilimenti Fca e sul reperimento dei soldi con cui conciliare gli investimenti nell'elettrico
di marca francese e il rilancio dei marchi del lusso italiani, Alfa Romeo e Maserati, nobili e ancora sexy ma non particolarmente
pieni di contenuti e di nuovi prodotti pronti a passare dagli uffici stile e dalle ingegnerie alle linee produttive. Una partita,
dunque, tutta intra-europea.
Se domani invece Nissan facesse più di una apertura di cortesia, muterebbe del tutto il profilo strategico della operazione e diventerebbero più nitide le grandi potenzialità contenute nella cifra geo-politica e geo-industriale di un ménage à trois. Prima di tutto perché continuerebbe ad affluire nel nuovo aggregato la linfa tecno-industriale di derivazione asiatica. Quindi, perché Renault e Fca avrebbero aperte le porte dell'Asia, che nel caso italiano sono una delle grandi sconfitte degli anni Novanta della gestione Romiti-Cantarella e dei quattordici anni dominati da Sergio Marchionne. Infine, perché diventerebbe più fluido il rapporto fra Renault-Fca e la realtà industriale e commerciale, politica e diplomatica degli Stati Uniti, peraltro nel pieno di una amministrazione Trump che adopera senza problemi il bastone della politica nel rapporto con l'economia, interna ed estera.
Fca porta in dote alla nuova società i ben funzionanti stabilimenti nordamericani, che sono stati rimessi a nuovo da obsolescenti che erano dalla cultura industriale dei tecnici e degli ingegneri italiani della vecchia Fiat, i prodotti Jeep e Ram, che in questi dieci anni hanno avuto risultati brillanti, la rete commerciale efficiente e diffusa capillarmente in tutti gli Stati Uniti. E la connessione con l'America, attraverso il Giappone, sarebbe simbolicamente e politicamente rilevante. Non esiste Paese che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, abbia stretto un legame così forte e così intimo con gli Stati Uniti. In secondo luogo, la fusione fra Fca e Renault – in caso di accordo con Nissan – beneficerebbe dell'accordo dell'area di libero scambio fra Unione europea e Giappone, entrato in vigore il 1 febbraio di quest'anno. Un accordo in totale contrasto con lo spirito dei tempi, segnato dall'utilizzo delle tariffe doganali come arma contundente, e che potrebbe rappresentare una sorta di infrastruttura industrial-commerciale favorevole per la costruzione del primo gruppo automobilistico al mondo. Tutto questo non sarebbe poca cosa.
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