La Prima della Scala

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Cultura-Domenica Teatro e danzaTre sfide per Diana

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Tre sfide per Diana

L'anno scorso fu Annette Dasch, berlinese, arrivata in corsa nella notte di Sant'Ambrogio a salvare la prima della Scala. Suo fu il ruolo di Elsa nel Lohengrin wagneriano: studiò il video della regia in viaggio, tenendo accanto la sua bambina di pochi mesi.

Quest'anno è la volta di Diana Damrau: di nuovo un soprano di scuola tedesca, bionda e bella, voce di acciaio, pronta e serena su tutti i piani della vita. Anche lei ha due figli, l'ultima di un anno. In Scala tutti hanno saputo quando è nata, perché la mamma aveva un concerto fissato proprio in quei giorni e naturalmente cancellò. Diana, Annette, sono le capofila di una nuova generazione di cantanti nate in Germania, Paese roccaforte anche nella musica. Quotate nei teatri e nei festival più importanti in tutto il mondo, vincono imbattibili, soprattutto nel repertorio di coloratura. Non c'è cantante italiana che tenga loro testa. Perché possiedono una robustezza di impianto, di scuola, che i nostri Conservatori hanno dimenticato.

Quello stile di canto, tra l'altro, lo abbiamo inventato noi, nella prima metà dell'Ottocento. Era una eredità delle scuole di virtuosismo dei castrati del Settecento. In maniera più civile e meno cruenta passò di mano, finendo alle grandi dive, capaci di estensioni di registro talmente ampie da stordire i primi ascoltatori: quei voli agli estremi della tessitura, su in cielo e giù negli abissi, fecero coniare il termine, nelle prime cronache, di ermafroditismo della voce. Anche in Violetta, nel primo atto di Traviata, arriva ancora un'eco di quella pratica tanto biforcata nelle due opposte direzioni. E più conturbanti sono i suoi momenti di canto scuro, nel registro grave, che le puntature, su nell'acuto, fino al mi bemolle della cadenza della Cabaletta.

Senza clamori, senza spettacolarità divistiche, Diana sta preparando un titolo pericoloso: nella storia della Scala, Traviata non è mai stata scelta come titolo inaugurale della stagione, proprio per evitare alla primadonna un terreno insidioso. La difficoltà principale della scrittura per il soprano, risiede nel fatto che ci vorrebbero tre cantanti diverse per reggere il ruolo, una per atto. La definizione è un po' semplificata, ma corrisponde a una realtà di scrittura: Verdi, nella sua pittura del profilo femminile di Violetta, in ciascun atto la dipinge con tratti vocali che restituiscono le tre età interiori del suo cuore di donna. Nel primo è una ragazza, decisamente ancora adolescente nelle corse tra le note, negli scarti imbizzarriti, nella determinazione assoluta: Verdi le destina le forme di Recitativo-Cavatina-Cabaletta, quelle della tradizione belcantistica. Nel secondo è donna, pacata nella fermezza, capace di pareggiare in un duello di declamato incisivo gli affronti di Germont padre. Ma anche consapevole negli abbandoni morbidi, ampi, di orizzontale espansione, come nell'"Amami Alfredo". Nel terzo Violetta è diventata una anziana: parla per sentenze, per proverbi, guarda al passato, e il canto la rispecchia, spezzato, spaziato nei silenzi, fino al parlato.

Diana Damrau, 43 anni, venti sulle scene, nata a Nünzburg, piccolo centro della Baviera, ha le carte in regola per superare a pieni voti l'atto più periglioso, il primo, con la grande scena solistica e le scoperte colorature. Perché detiene da tempo lo scettro di incontrastata "Regina della Notte" nelle più belle produzioni del Flauto magico, da Salisburgo a New York. Ma canta anche tanto Bellini (il suo secondo autore, dopo Mozart) da aver imparato, dall'interno, tutte le sfumature della malinconia e della introspezione. E non disdegna la contemporanea (in ottobre, all'an der Wien ha portato al trionfo la nuova opera di un trentenne inglese). Dunque sa che la musica vive perché rispecchia il presente. La modernità del teatro di Verdi potrebbe incontrare in lei una interprete ideale. Incrociando le dita, naturalmente.

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