In Italia è «urgente agire» sul fronte della formazione continua. È la raccomandazione lanciata dall’Ocse sulla scorta di uno studio che esamina lo stato dell’arte in materia di formazione nei 34 Paesi industrializzati. La Penisola si ritrova in coda su molti parametri, a tutto scapito del mercato del lavoro e della competitività e produttività del Paese.
I dati riportati dall’Ocse sono spesso impietosi. A cominciare dal 38% degli adulti che in Italia ha scarsi livelli di competenze linguistiche e di calcolo, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse (solo Turchia e Cile fanno peggio). Pesa poi la questione demografica: ci sono 3,5 persone anziane (sopra i 65anni) ogni dieci adulti in età lavorativa, il più alto tasso nell’Ocse dopo il Giappone, con la prospettiva di un quasi raddoppio di tale tasso entro il 2050.
Le nuove tecnologie stanno poi cambiando le competenze necessarie nel lavoro: quasi il 51% dei posti ha un rischio significativo di automazione. Eppure in Italia, nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni, solo il 20,1% degli adulti partecipa in attività di formazione, la metà rispetto alla media, in base raccolti dall’Ocse. La percentuale scende al 9,5% per gli adulti con competenze basse e al 5,4% per i disoccupati di lunga durata, cioè le fasce che avrebbero invece maggiormente bisogno di training.
«C'è poi il problema della competitività che vede l’Italia in una posizione abbastanza difficile, nonostante le nicchie di alto livello, soprattutto tra le Pmi», sottolinea Glenda Quintini, senior economist dell'Ocse e lead author dello studio, che per la parte italiana è stato curato in particolare da Alessia Forti. «La risposta principale a questo scenario – ce ne sono ovviamente anche altre – è la formazione, ovvero cercare di far aumentare le competenze medie, portare a un livello più alto coloro che hanno competenze basse, ma soprattutto investire nelle competenze giuste, quelle che possano aiutare il sistema produttivo a diventare più competitivo e assicurare agli adulti italiani di restare nel mondo del lavoro che continua a cambiare, a poter progredire nel lavoro e non essere vittime, ad esempio, di ristrutturazioni”, spiega l’economista.
L’Italia quindi è “assolutamente” tra i Paesi che ha più urgenza di puntare sulla formazione continua, anche se negli ultimi dieci anni la quota di aziende che la forniscono è quasi raddoppiato, passando dal 32% al 60%, «ma il punto di partenza era molto basso». La media Ocse inoltre è al 75% e la Norvegia è il 100%, Spagna, Regno Unito, Germania e Francia sono all’80% o oltre. Inoltre solo il 30% dei lavoratori con mansioni con un rischio significativo di automazione negli ultimi dodici mesi ha partecipato a programmi di formazione. Solo la Grecia ha una percentuale inferiore, mentre la Danimarca è al 75%, Norvegia e Olanda sono al 70%.
In Italia lascia poi a desiderare l’allineamento della formazione continua ai fabbisogni del mercato, rileva l’Ocse. Sebbene un’ampia quota di imprese (l’80%, ndr) con almeno dieci dipendenti dica di valutare il proprio fabbisogno di competenze, «l’Italia è uno dei paesi Ocse con la più bassa corrispondenza tra priorità identificate e attività di formazione erogate», sottolinea lo studio. E questo senza contare le imprese più piccole, che costituiscono la gran parte del tessuto produttivo italiano e per le quali la valutazione dei fabbisogni e la formazione rimangono concetti lontani. Inoltre, più del 30% delle ore di formazione si focalizza sulla formazione obbligatoria, come salute e sicurezza, uno dei tassi più alti tra i paesi Ocse (in Danimarca è solo il 10%).
Un altro importante nodo è quello dei finanziamenti che dovrebbero essere «più adeguati e sostenibili». La spesa pubblica per la formazione nel contesto delle politiche attive del lavoro è molto bassa rispetto ad altri paesi Ocse (3,3% del Pil pro capite per disoccupato contro il 19% della Danimarca) e pochissime sono le imprese che beneficiano di sussidi pubblici e/o incentivi fiscali per fornire formazione. Spesso le spese per il training ricadono così sulle spalle dei lavoratori: in Italia il 28% dei partecipanti alla formazione ha contribuito finanziariamente al training, il tasso più alto dopo quello della Grecia (44%). Meno dell'1% delle aziende che fanno formazione beneficiano di sussidi ed agevolazioni pubblici contro la media Ocse dell'8,7%. Sono state sospese le risorse pubbliche erogate dalle regioni per la formazione professionale.
Inoltre, negli ultimi anni il governo ha effettuato dei prelievi al contributo dello 0,30% normalmente destinato ai Fondi Paritetici Interprofessionali per la Formazione Continua, sottolinea Alessia Forti, l'economista che ha seguito più da vicino la parte italiana del rapporto. Ad esempio, nel 2017, solamente il 58% dei contributi versati dalle imprese sono stati effettivamente usufruiti dai Fondi.
Mentre inizialmente i trasferimenti sono stati utilizzati dal governo per finanziare misure di welfare nel contesto della crisi economica, dal 2015 in poi i prelievi sono diventati strutturali – diminuendo così le risorse a disposizione per finanziare la formazione continua. Insomma, l’impressione è che l’Italia non stia andando nella direzione migliore. E quindi alla domanda se il Paese sia pronto, in materia di formazione, alle sfide che riserva il futuro, le economiste dell’Ocse rispondono di «propendere per il no», pur aggiungendo che tutti i Paesi hanno aspetti in cui migliorare, inclusi i Paesi nordici che sono i primi della classe in materia (e non a caso eccellono anche in competitività e reddito pro capite). «In Italia bisognerebbe promuovere una cultura dalle formazione sia dal punto di vista dei lavoratori, degli adulti, ma anche delle imprese, puntando soprattutto sulle Pmi. Sono passi necessari se si vuole che il sistema italiano si muova verso l'altro in termini di competitività internazionale», conclude Quintini.
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