Le attività manuali e a più basso contenuto professionale sono a forte rischio di sostituzione; le nuove competenze tecnologiche diventano un elemento di tutela evoluta del lavoro. Gli assunti emersi dal primo rapporto Aidp-LabLaw (curato da Doxa) su robot, intelligenza artificiale e lavoro in Italia offrono una visione abbastanza precisa di quale sia lo scenario a cui stiamo andando incontro. E si specchiano in quello che è forse il messaggio più importante che scaturisce da questa indagine: la stragrande maggioranza delle aziende (l’89% nello specifico) ritiene che umanoidi e algoritmi di machine learning non potranno mai sostituire del tutto il ruolo delle persone, ma avranno comunque un impatto migliorativo sul lavoro, stimolando la creazione di funzioni che prima non c’erano e lo sviluppo di nuove professionalità.
Da parte del management, in linea generale, c’è quindi “fiducia” verso le nuove tecnologie e lo dimostra il fatto che ben il 61% delle aziende italiane si dice pronto ad introdurre sistemi di intelligenza artificiale e robot nelle proprie organizzazioni, mentre solo l’11% si dichiara totalmente contrario. A spingere l’adozione di questi strumenti concorre la convinzione che il loro utilizzo possa rendere il lavoro meno faticoso e più sicuro, aumentare l’efficienza e la produttività (lo dice rispettivamente il 93% e il 90% del campione) e favorire la sostituzione dei lavori manuali con attività di concetto (lo affermano otto dei dieci fra manager e imprenditori intervistati).
Al di là dei benefici in termini organizzativi, c’è però l’immancabile rovescio della medaglia legato all’introduzione di queste tecnologie, sotto forma di effetti negativi sull’occupazione e in termini di esclusione di chi è meno scolarizzato e qualificato. In quest’ottica, suggeriscono gli autori del rapporto, va letto il dato negativo sulle conseguenze in termini di perdita di posti di lavoro indicata dal 75% dei rispondenti.
Molto significativi, per inquadrare meglio la rivoluzione in atto nelle organizzazioni e le attività che i direttori del personale saranno chiamati a svolgere per guidare il cambiamento, sono inoltre i seguenti indicatori. Per il 56% delle aziende censite, l'impiego di sistemi di intelligenza artificiale e robot si è concretizzato a supporto delle persone, a riprova che tali tecnologie sono da considerarsi principalmente un'estensione delle attività umane, mentre per il 42% hanno sostituito mansioni prima svolte da dipendenti. Circa un terzo delle aziende esaminate, infine, ritiene che queste tecnologie abbiano migliorato molti aspetti intrinseci del lavoro dipendente, favorendo una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro in entrata e in uscita, la riorganizzazione degli spazi e la promozione di progetti di smart working.
«I risultati della ricerca - spiega in una nota Isabella Covili Faggioli, Presidente di Aidp (l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale) - fanno capire che la digitalizzazione non è mai solo una questione tecnologica ma strategica. Sono sempre e comunque le persone che fanno la differenza».
Per Francesco Rotondi, giuslavorista e co-founder di LabLaw, emerge anche un tema di nuovi rapporti tra imprese e lavoratori, in cui spicca «la possibilità di un’integrazione tra processi fisici e tecnologia digitale mai vista in precedenza, che lascia presagire la nascita di un modello nel quale l’impresa tenderà a perdere la propria connotazione spazio-temporale in favore di un sistema di relazioni fatto di interconnessioni tra soggetti attivi in un ambito che va oltre la dimensione aziendale. Ciò che deve essere compreso, molto probabilmente, è che vi sarà la creazione di nuove opportunità di lavoro proprio in ragione dell'introduzione di nuove tecnologie e nuovi modelli organizzativi».
Tra i tanti punti aperti che l’intelligenza artificiale si porta dietro c’è sicuramente quello di chi, in azienda, deve guidarne la sua adozione passo dopo passo. «Credo che in queste fasi - aggiunge in proposito Rotondi - il ruolo del responsabile Hr sia di fondamentale importanza come in tutti i momenti di transizione, perché oggi al centro dell’organizzazione del lavoro sta tornando l’uomo con le proprie capacità, imprescindibili per la ricerca della reddittività d’impresa». Serve dunque intervenire, a detta del giuslavorista, soprattutto su un piano, e non è certo quello tecnologico.
«Non esiste un problema etico, e non credo che esista un vuoto regolatorio: c’è solo un grande problema culturale e di una società contradditoria che ha perso i punti di riferimento. Le relazioni industriali, a mio avviso, potranno fare la differenza e vanno per questo riscritte le relazioni contrattuali primarie rendendole più aderenti alla realtà e capaci di esprimere l’attuale assetto delle relazioni». Con buona pace di robot e algoritmi.
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