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Mali, il cuore sensuale dell'Africa

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Mali, il cuore sensuale dell'Africa

Ragazze Tuareg a Timbuctù (foto Bruno Zanzottera)
Ragazze Tuareg a Timbuctù (foto Bruno Zanzottera)

Grandi viaggi: deserti, montagne, continenti lontani. L'inverno è la stagione giusta per partire. Dall'altra parte del mondo monsoni e piogge, grande caldo e freddo estremo sono ormai passati. E così, lontano dalle grandi folle del turismo estivo, si può andare alla scoperta di nuove mete e nuove destinazioni. Come il Mali, cuore nero dell'Africa, e il suo grande fiume, il Niger, che da ottobre diventa navigabile. Finite le piogge e il gran caldo, si può andare dalla capitale Bamako alla leggendaria Timbuctù, dal porto di Mopti alla moschea in terra di Djenné fino ai villaggi Dogon sulla falesia di Bandiagara.

BAMAKO, LA CAPITALE SUL FIUME
Gher-n'Gheren
, ovvero "il fiume dei fiumi". Così i nomadi Tuareg chiamano il Niger, che taglia il Mali per 1400 chilometri e si srotola in un ampio corso attraverso la pianura, testimone silenzioso della secolare lotta tra Sahara e Sahel, spaccando in due Bamako, sonnolenta capitale africana che sembra dipendere dalle sue acque per respirare, per vivere. Acque indolenti, che cambiano continuamente colore, a volte chiare come l'argento, poi brune di fango, sono macchiate da cespugli d'erba e screziate da isole galleggianti, mentre i pescatori, su piroghe scavate da tronchi d'albero, scivolano sulla superficie spingendosi con lunghe pertiche. Sul Niger, in città, svettano tre grandi ponti, dove rimbomba un traffico ininterrotto di taxi, automobili, autobus strapieni, camion, ciclisti e pedoni. Il tutto è avvolto da una polvere rossastra, fatta di sabbia del deserto portata dall'harmattan (il vento secco che soffia da nord), che ricopre come una patina farinosa le strade, le case, le stesse foglie degli alberi tropicali. Non sfuggono a questa polvere nemmeno le file infinite di capitaine, il grande e saporitissimo pesce persico del Niger, venduto sulle bancarelle ai bordi delle strade. E che, bollito, alla griglia, in umido, fritto, è il piatto nazionale. È una polvere che si incolla sulla pelle, brucia gli occhi e scricchiola tra i denti.

TIMBUCTÙ, LA CITTÀ CHE SONNECCHIA NEL DESERTO
Osservando lo scorrere placido del Niger, non si può non pensare a come le sue rive siano state testimoni di imperi, traffici e fortune: sulle sue acque navigavano vascelli carichi di oro, spezie e schiavi che a Timbuctù venivano scambiati con sale, avena e cavalli trasportati fin lì da carovane di cammelli. Imponente e maestoso, non stupisce che sia stato, e sia ancora oggi, il cuore commerciale e culturale di questo pezzo di Africa. Oggi, un piccolo aereo collega Bamako a Mopti,Timbuctù e Gao. Un volo-canguro, di quelli che esistono solo nel Continente Nero, che in meno di tre ore catapulta nel cuore del mito maliano: Timbuctù. Tutto è stato detto e scritto sulla misteriosa e ricchissima città carovaniera proibita per secoli ai cristiani, con palazzi di fiaba e grandi moschee. Sui sogni e sulle fantasie che ha risvegliato nella mente degli europei. E tutto è stato detto e scritto sulla sua decadenza. Sulla cocente delusione che i viaggiatori di oggi provano, trovandosi in un mondo fatto di rovine. La Regina delle Sabbie è misera, lacera, e il fardello della sua storia così affascinante non fa che rendere ancora più drammatico il contrasto con questa terra e con queste genti che adesso soffrono la fame e la sete. Ma il crollo del mito ha finito per restituire Timbuctù alla sua natura: il Sahara. Questo è il suo fascino: sonnecchiare e forse finire lentamente divorata dal deserto.

Camminando per le sue strade fatte di sabbia, tra le sue moschee fatte di fango, si è rincorsi, assillati, circondati da frotte di bambini che cercano di avere qualcosa in regalo: "toubab, ça va, bonbon" (uomo bianco come va, caramella). Per quanto si ignorino, di solito non demordono. Anzi, insistono in una litania asfissiante che accompagnerà per tutto il viaggio, in ogni mercato e in ogni villaggio. È proprio come scrive Ryszard Kapuscinski in Ebano: "Non avevo nulla per loro, ma continuavano a starmi intorno. L'uomo bianco, in Africa, è un fenomeno così strano, che lo si può stare a guardare per ore e ore". Vecchie targhe di bronzo ricordano, davanti ad alcune case, la sosta in città degli esploratori europei: il tedesco Heinrich Barth (1853), il francese René Caillé (1828), il britannico Alexander Laing (1826). Mentre i volti delle persone che si incontrano, i profili affilati dei Tuareg avvolti nei loro chech indaco, i volti chiari dei Mauri e le linee forti e scure dei Bozo, dei Peul, dei Songhai, sottolineano come, ancora oggi, Timbuctù sia un crocevia etnico. Qui la gente va e viene da lontano; popoli neri incontrano popoli bianchi. Mito e realtà si incrociano sempre, nonostante tutto.

IN PINASSE SUL NIGER
In passato, un canale del Niger penetrava fino alla città: oggi Kouriema, l'attuale porto di Timbuctù, è distante venticinque chilometri. Qui, in una polverosa confusione, legna, riso, farina e burro di karité vengono caricati e scaricati su chiatte, mentre venditori gesticolanti offrono, sollevandoli da scafi che imbarcano regolarmente acqua, recipienti colmi di pesce, cosciotti di montone, capre, galline e piccioni. Ed è da qui che partono le grandi pinasse a motore (imbarcazioni affusolate con il tettuccio di canne) che portano i viaggiatori fino a Mopti, circa 350 chilometri più a sud: tre giorni di navigazione sul fiume, con brevi soste nei villaggi, accampandosi per la notte sulle rive. Un viaggio dal ritmo pigro e costante, mentre il paesaggio sfila lentamente davanti agli occhi: una stretta striscia di verde su cui cresce il riso, dune di sabbia e cactus, capre, mucche e cavalli che brucano in ordine sparso, tende di nomadi, minuscoli orti delimitati da cespugli spinosi. Immagini sbiadite dal sole e dalla foschia di polvere sollevata dall'harmattan.

I villaggi che si incontrano - Donga, Diré, Tonka, Niafunké - appartengono a un altro mondo, a un altro tempo: case e moschee che sembrano essere sul punto di sciogliersi, bambini nudi che si avvicinano a frotte appena si sbarca dalla pinasse, donne con i seni nudi che lavano i panni nelle acque del Niger, uomini seduti sulle sue rive. Genti povere che condividono con il mondo che li circonda tutte le crudeltà della natura. Questo è il cuore del Sahel, dove la vita è una lotta continua per non diventare sabbia, e una continua attesa: della prossima stagione delle piogge, della partenza o dell'arrivo di battelli, autobus o taxi. L'attesa della prossima consegna di riso, farina, olio, benzina. Tutto, dalle spille di sicurezza alle batterie per le lampadine tascabili, deve essere trasportato via acqua. E così il fiume diventa vita, commercio, sopravvivenza.

LE ARCHITETTURE SENSUALI DEI BOZO
Subito dopo Niafunké, come dal nulla, dai profili dei minuscoli villaggi spuntano palazzi arditi ricchi di bassorilievi, torri di splendide moschee, case decorate, eretti a forza di impastare con le mani fango, paglia e sterco, il cosiddetto "banco". È questo il mondo delle architetture dei Bozo, l'etnia nera che per prima ha abitato l'ansa del Niger. Da secoli sono considerati non solo i più grandi pescatori, ma soprattutto i migliori architetti, carpentieri, muratori del Mali. I Bozo sono i maîtres della terra e dell'acqua. Solo loro hanno il potere di comunicare con gli spiriti delle acque, di costruire piroghe e dighe. Solo loro sono in grado di stabilire se il luogo scelto per costruire la casa è favorevole. Conoscono gli esorcismi per allontanare gli spiriti maligni e i rituali propiziatori che garantiscono la solidità dell'edificio, la fecondità e la felicità dei suoi occupanti. Una tradizione che si ritrova in altre società tribali ma che, nel caso dei Bozo, vede la figura del muratore coincidere con quella del costruttore materiale e del sacrificatore.

Così le architetture in terra dei Bozo emanano un piacere sensuale e, grazie all'uso di un unico materiale, pareti, volte, sedili, pilastri diventano creazioni artistiche intimamente legate ai ritmi della vita quotidiana, sculture viventi abitate da uomini e dal loro genio creativo. L'universo architettonico Bozo è svincolato dalla tirannia dell'angolo retto: muri e tetti convessi o concavi, pienamente rotondi o mollemente arcuati. Così, mentre a bordo della pinasse si costeggiano i villaggi lungo le rive, capanne, palazzi, moschee paiono quasi stare nel paesaggio come esseri umani: seduti, in ginocchio, in piedi, sdraiati, mostrano seni, sederi, gambe. A raccontare come, per i Bozo, l'uomo sia misura di tutte le cose nella pienezza della sua sessualità, che si esprime anche e soprattutto nell'architettura.

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