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Mali, ritorno alla terra dei Dogon

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Mali, ritorno alla terra dei Dogon

Pitture rupestri Dogon in una grotta sulla falesia di Bandiagara
Pitture rupestri Dogon in una grotta sulla falesia di Bandiagara

Dopo tre giorni di navigazione Mopti compare alla confluenza dei fiumi Niger e Bani. Questa città è un grande porto fluviale, il più importante e caotico crocevia della vita economica del Mali. L'insenatura portuale è una babele di centinaia di battelli, pinasse, chiatte e canoe che si infilano ovunque. Fitte bancarelle affollano le banchine e tutta la zona è un immenso, perenne mercato dove ogni giorno Bozo, Tuareg, Peul, Bambara, Songhai vendono e comprano sale, legna, frutta. E dove l'odore fortissimo di pesce essiccato impregna ogni cosa.

LA GRANDE MOSCHEA DI DJENNÉ
Da Mopti, via terra, si raggiunge la vicina Djenné, la città santa del Mali gemella di Timbuctù, che sorge su un'isola del Bani. L'acqua è ovunque, tanto che, per raggiungerla, macchine e persone vengono caricate su una chiatta arrugginita che le traghetta oltre i mille rivoli del fiume. Fondata all'alba del IX secolo, Djenné appare subito meravigliosa: è il capolavoro degli architetti Bozo dove vicoli di terra, strade di sabbia, case di fango, cortili nascosti e terrazze si mescolano in un intrico sensuale fatto di chiari e scuri, di luci e ombre. Domina su tutto, nella piazza del mercato, la stupefacente Grande Moschea che, con le sue mura merlate, le sue torri e le sue scalinate è la più imponente costruzione in terra del mondo ed è stata riconosciuta dall'Unesco come Patrimonio dell'Umanità. Una magia architettonica dalla bellezza intensa, quella di Djenné, ma molto fragile. Sì, perché tutti gli edifici in banco (impasto di fango, paglia e sterco usato per le costruzioni) vanno rintonacati e risistemati con regolarità alla fine di ogni stagione delle piogge, altrimenti rischiano di sciogliersi, di sbriciolarsi inesorabilmente.

I DOGON, MISTERIOSI ASTRONOMI
Pochi chilometri a est di Mopti si svolge un'altra magica storia tutta africana. Quella dell'ormai celebre popolo Dogon che vive sulla falesia di Bandiagara, una muraglia di roccia giallastra lunga una sessantina di chilometri che rompe la monotonia del Sahel. Relativamente isolati dal resto del Paese fino al secolo scorso, tenaci e sapienti agricoltori, soprattutto di cipolle, i Dogon, nel corso di cinque secoli, hanno sviluppato una cultura originale, che oggi appare nelle forme dei loro villaggi, nell'architettura delle case e dei templi, nei loro miti e leggende, nei prodotti dell'artigianato, nel loro modo di concepire l'universo e l'uomo in esso. I loro villaggi, con le capanne dal tettuccio di paglia, sembrano presepi aggrappati alle rocce. In alto, sopra i tetti appuntiti, occhieggiano le grotte dove vivevano i Tellem, pigmei che abitavano la regione prima dell'arrivo dei Dogon.

Roccia e sabbia: i Dogon vivono tra questi due elementi. Ma chi cerca nei libri informazioni su questo popolo, legge di un mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l'universo secondo mappe ancestrali armoniche. Già, perché per noi occidentali i Dogon sono quelli di Marcel Griaule, il grande etnologo francese che dedicò molti anni della sua vita a studiare questo popolo. Nel suo libro più celebre, Dio d'Acqua, uscito nel 1948, Griaule offrì un'immagine magica dei Dogon e del loro complesso universo cosmogonico. Loro vennero descritti come "i misteriosi astronomi" che conoscevano il segreto della stella Sirio B. Un'immagine rimasta congelata, che resiste ancora oggi, ovviamente per noi occidentali. Tanto che la falesia, nel 1989 è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dall'Unesco in quanto "culla dell'animismo". Ma qui, da queste parti, in Africa occidentale, la fama dei Dogon è, e resterà sempre, legata solo alle cipolle.

IL MINUSCOLO VILLAGGIO DI KOULIKORO
Il ritorno a Bamako corre infine veloce lungo una strada che costeggia il Bani e il Niger, sfiorando le città di San e di Segou. Sfilano ancora davanti agli occhi profili di case e moschee in banco e di minareti incoronati da uova di struzzo beneauguranti. La savana tutt'intorno è verde e coltivata: questa è la terra degli agricoltori Bambara, l'etnia di maggioranza del Paese. Ed è proprio alle porte di Bamako, nel minuscolo villaggio di Koulikoro, che finisce idealmente il viaggio lungo il Grande Fiume. Questo è il vero porto commerciale della capitale maliana. Da qui, per cinque/sei mesi (da settembre a gennaio), quando il fiume è interamente navigabile, partono battelli diluviani e chiatte arrugginite diretti a Mopti, Timbuctù e Gao. Non sono per turisti, naturalmente. Sono quelle dove da sempre si accalca la gente del Mali. Che le usa per andare a lavorare, a studiare, a cercare semplicemente una nuova opportunità. Una storia, questa, che racconta come qui la vita sia dura e si fatichi a sopravvivere. Ma anche come il Mali sia uno dei luoghi più belli della terra. Perché, come scrive John Matshikiza, giornalista sudafricano: "Per amare l'Africa ci vuole pietà. Bisogna saper vedere il bello e il brutto, cercando di capire le radici di questa bruttezza. Con un guizzo di umanità".

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