«Posso farvi una foto? Sorridete», fa segno il signore di mezza età dietro al bancone mentre scatta il flash della macchina fotografica. Otto del mattino, tappa da Bakdash, pasticceria popolarissima e primo locale che si incontra all'ingresso del souq di Damasco. Siamo le prime clienti, la cortesia e l'ospitalità siriana stanno toccando l'apice: i primi avventori vanno trattati con ancora maggior riguardo per propiziarsi una giornata di buoni guadagni.
«Come vi chiamate? Da dove venite? Benvenute in Siria», sorride l'uomo mentre ci fa accomodare ai tavolini del bar.
"Welcome to Syria" sarà il ritornello che ci sentiremo ripetere per due settimane per le strade di ogni città. Siamo partite la sera prima, due amiche da sole, non ancora trentenni per esplorare il paese. Come mezzi di trasporto pullman e taxi collettivi. Tutto organizzato sul posto senza nessuna prenotazione. In quindici giorni non troviamo nessuna difficoltà, anzi incontriamo siriani accoglienti e amichevoli, e scopriamo che il paese, che ha un tasso di furti e aggressioni bassissimo, è tranquillo e sicuro per i turisti.
Sarà l'ospitalità mediorientale, l'abitudine a vivere insieme di cristiani e musulmani, armeni, curdi, palestinesi e nuovi immigrati iracheni. Oppure lo sguardo del presidente Bashar al-Assad che ci segue dalle gigantografie che coprono intere facciate dei palazzi, ma la realtà è che in Siria si può passeggiare da soli a qualsiasi ora. Qui i bambini giocano per strada fino a tarda sera e i tavolini all'aperto sono occupati da intere famiglie impegnate in estenuanti partite a backgammon.
LE CAOTICHE VIE DI DAMASCO
La capitale è una città caotica, tollerante e ospitale e il souq al-Hamidiyya ne è la rappresentazione più fedele. Il souq è un insieme disordinato di bancarelle, negozi ed empori a due piani che si susseguono ininterrottamente per strade e vicoli lastricati. Qui si trova tutto: sete e gioielli, tappeti e bauli intarsiati, carne appesa ai ganci delle bancarelle dei macellai e abiti da sposa. La calca può essere soffocante, l'odore delle spezie e dell'incenso è pungente e l'afa è aumentata dal tetto di lamiera che copre i vicoli. Questa è la parte labirintica della città e ci si perde, con piacere.
Per prendere fiato e bere un tè alla menta è meglio avvicinarsi alla piazza su cui si affaccia la moschea degli Omayyadi. I bar si trovano in splendidi palazzi, con pavimenti di marmo intarsiato e fontane al centro della sala. Da Jabri House, un locale su una stradina appartata vicino al souq, gruppi di ragazze stanno sedute ai tavoli a bere coca cola (per gli alcolici meglio andare nel vicino quartiere cristiano) e fumano narghilè. Nonostante la bellezza del posto di turisti se ne vedono pochi. Questa è anche la zona degli hotel di charme: da qualche anno i proprietari di alcune antiche case damascene hanno deciso di ristrutturare le loro abitazioni e di trasformarle in boutique hotel. Tra questi c'è anche la proprietaria di Beit Ramza che negli spazi del suo palazzo secentesco ha ricavato un raffinato albergo di sei stanze.
PALMYRA, OASI NEL DESERTO
Raggiungiamo le rovine dell'antica Tadmur (nome semitico di Palmyra ancora usato dai siriani) in pullman. Per tre ore dal finestrino si vede scorrere il vuoto del deserto, una terra arida, piatta interrotta solo da qualche cammello e da pochi beduini seduti sotto le tende bianche con il lembo dell'ingresso rialzato. Il pullman è un modo per socializzare, dietro di noi una signora anziana col viso tatuato alla maniera beduina ci offre dei dolci.
A Palmyra arriviamo a metà pomeriggio, in tempo per goderci lo spettacolo del tramonto quando il deserto si incendia e gli archi, le tombe, i templi e il teatro del sito archeologico emergono dalla sabbia rossa come un miraggio. Tra le oltre cinquemila colonne restaurate si alzano scie di sabbia, sono le moto dei beduini con le braccia cariche di collanine colorate e le magliette con l'immagine di Assad. Sono a caccia di turisti. Vogliono vendere ma anche fare due chiacchiere, molti parlano anche un po' di italiano imparato dai clienti.
ALEPPO, SPIRITUALE E COMMERCIALE
Dopo il silenzio del deserto Aleppo è uno shock. Il traffico è intenso come in tutte le grandi città del Medio Oriente e sembra che tutti gli abitanti siano in auto e tutti contemporaneamente impegnati a suonare il clacson. Meglio fare un giro a piedi, la destinazione è il quartiere a maggioranza cristiana di al-Jdeida. Qui esiste la comunità armena più grande del paese, 40 mila persone che vivono in questo dedalo di viuzze strette e lastricate coperte da volte e archi su cui si affacciano i negozi degli artigiani e le beit, le ricche dimore dei commercianti. Oggi molti di questi palazzi sono stati convertiti in alberghi e ristoranti.
Cenare al ristorante Sissi è così un modo per gustare un'ottima cucina e per vedere un'antica beit dell'interno. E sulla stessa via si può soggiornare alla Beit Wakil, lussuosa dimora trasformata in un elegante albergo costruita attorno a un fresco patio. Al-Jdeida è la Siria in piccolo, qui convivono a distanza di pochi metri moschee e chiese greco-ortodosse, cattolico-siriane, maronite ed evangeliche.
È domenica mattina e i negozi sono quasi tutti chiusi. Nella Chiesa armena dei quaranta martiri si sta celebrando da due ore la messa cantata. Ma sulla piazza un bar è aperto. Dopo pochi minuti si avvicina un signore anziano, è curioso e si ferma per fare una chiacchierata in inglese. Dopo un po' ci invita a seguirlo, apre un portone ed entriamo in un cortile con una fontana al centro e piante di limoni. Attorno alla tavola si stanno affaccendando la moglie siriana e la nuora libanese. Il signore è curdo. «Sono le due del pomeriggio – dice l'uomo guardando l'orologio – è quasi ora di pranzo, vi fermate?».
Benvenuti in Siria.
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