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La lunga marcia cinese è lontana dalla libertà

di Ian Buruma

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1 Ottobre 2009


Il fatto che l'attuale leader della Repubblica popolare cinese, Hu Jintao, sia una persona noiosa sarà senza dubbio motivo di sollievo per la maggior parte delle persone, compreso il miliardo e trecento milioni di cinesi. Il suo tanto atteso discorso all'Assemblea generale dell'Onu, in cui ha promesso di tagliare le emissioni di anidride carbonica «in misura significativa», può essere stato deludente nella sua vaghezza, ma il suo blando impegno a fare della Cina un bravo cittadino del pianeta è stato notevolmente più rassicurante dei farneticamenti di altri leader autoritari presenti alla riunione.
La tetraggine di Hu fa effetto se si considera la straordinarietà del processo che in tempi recenti ha trasformato la Cina da paese totalitario, povero e insanguinato, a ricca (a macchie di leopardo) superpotenza che aspira in un futuro non tanto lontano a prendere il posto dell'America come nazione guida. Ma forse la sua mancanza di carisma non è un caso. La Repubblica popolare ormai ha sessant'anni: i primi ventisette, sotto la guida del presidente Mao, quando milioni di persone morirono in una successione praticamente ininterrotta di purghe e radicali cambi di rotta, e decine di milioni di persone morirono di fame per strampalati esperimenti economici, sono stati talmente terrificanti che la maggioranza dei cinesi non ne può più di leader carismatici.
Certo, ancora oggi, nella Cina del dopo-Olimpiadi, del dopo "arricchirsi è bello", del dopo negozi di Prada e sushi bar, si vedono ancora immaginette del defunto presidente che dondolano appese agli specchietti retrovisori di qualche taxi di Pechino. Ogni volta che le vedo chiedo immancabilmente all'autista che cosa ne pensa di Mao. La risposta solitamente è un pollice alzato e qualche luogo comune su «un grande uomo che ha unificato il paese». Sì, ha fatto degli errori, aggiunge spesso il tassista, fedele alla linea del partito, ma «il 30% di quello che ha fatto era cattivo e il 70% buono".
La maggioranza dei cinesi che ho incontrato, tuttavia, preferisce non soffermarsi sulla prima parte dell'esistenza della Repubblica popolare, specialmente su quel 70% cattivo. È troppo doloroso, e ancora troppo rischioso. Ci sono dei tabù nella storia recente della Cina, come la responsabilità personale di Mao per la morte di milioni di persone durante la Rivoluzione culturale. Denunciare apertamente Mao vuol dire chiamare in causa il Partito comunista stesso, che ancora monopolizza il potere.
Naturalmente anche la seconda parte della storia della Repubblica popolare cinese ha i suoi tabù. La ribellione pacifica e la repressione violenta a piazza Tienanmen, e in molti altri luoghi in tutta la Cina, non possono essere menzionate pubblicamente. Per questo la maggioranza dei giovani sa poco di quello che accadde nel 1989, e ancor meno di quello che è accaduto negli anni 50 o 60. Quando sono andato a incontrare alcuni genitori di studenti uccisi nel massacro di piazza Tienanmen, mi hanno tutti raccontato la stessa storia: «La gente non può parlare ai sui figli di queste cose, perché finirebbero in guai seri a scuola. E poi i ragazzi vogliono divertirsi. Non vogliono stare a sentire queste storie tristi».

È decisamente più facile parlare dell'ascesa della Cina, delle città nuovissime con i loro luccicanti grattacieli, più alti di qualunque altro sulla Terra, della ricchezza crescente dei ceti medi urbani, della pioggia di medaglie d'oro dei Giochi olimpici e del successo dell'arte moderna cinese, che tocca prezzi astronomici, non soltanto a Hong Kong e a Shanghai, ma anche a Londra e a New York. La Cina è l'unica civiltà antica nella storia dell'umanità a essere riemersa come forza di primo piano a livello planetario. I cinesi di questo sono giustamente orgogliosi. E allora, perché rompere il giocattolo? Meglio essere governati da uomini noiosi, senza alcun carisma, che manterranno le cose belle e stabili.
Non è la storia che probabilmente vi sentireste raccontare dai lavoratori disoccupati delle regioni deindustrializzate della Cina nordorientale, o dai contadini in rivolta della provincia del Guangdong, cacciati dalle loro terre da palazzinari avidi che hanno agito di concerto con funzionari di partito corrotti. E probabilmente non concorderebbero con questa visione delle cose nemmeno i coraggiosi avvocati disposti a chiamare in causa qualcuno di questi ufficiali corrotti, o gli intellettuali dissidenti che ancora vengono arrestati perché sostengono che i cinesi devono poter godere dei diritti democratici fondamentali.

La nuova élite di Pechino
Ma è la tesi comunemente ripetuta da chi più beneficia dell'ondata di divertimento, moda e prosperità che sta vivendo la Cina: la nuova élite urbana, in alcuni casi i figli viziati dei capi del partito. Nessuno di loro è un ideologo comunista, tutti hanno preso sul serio lo slogan del defunto leader Deng Xiaoping «Arricchirsi è bello». E non pochi fra loro, oggi quarantenni, nel 1989 erano fra i manifestanti che chiedevano libertà democratiche e fine della corruzione.
  CONTINUA ...»

1 Ottobre 2009
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