«Ora siamo tutti realisti»? No. Pragmatici forse, ma non "realisti". L'elezione di Barack Obama alla Casa Bianca ha fatto felice molta gente, specialmente quelli che si autodefiniscono "realisti" in politica estera e che accusavano il suo predecessore, George W. Bush, di negare la realtà preferendole un pericoloso idealismo. Obama ha elogiato la Realpolitik di Bush padre. E un funzionario della Casa Bianca recentemente ha detto al Wall Street Journal che Obama «si è inteso subito con quella generazione di saggi vecchio stampo della fine della Guerra fredda». L'ex consigliere per la sicurezza nazionale di Bush padre, Brent Scowcroft, ha definito l'elezione di Obama un rigetto nei confronti di Bush figlio «in favore del realismo».
È ovvio che la politica estera dev'essere fondata sulla realtà. Gli americani sono d'accordo che gli obbiettivi di politica estera devono essere obbiettivi raggiungibili, che gli Stati Uniti dovrebbero conciliare mezzi e fini. Quale individuo di buon senso potrebbe trovarsi in disaccordo con un'affermazione del genere? Questo è semplicemente pragmatismo. Ma il "realismo" come dottrina (d'ora in avanti vi risparmio i virgolettati) va molto più in là: per usare le parole di uno dei capofila del realismo, lo scopo principale della politica estera americana dovrebbe essere quello di "gestire le relazioni fra Stati", non di "alterare la natura degli Stati".
Incontestabilmente, ciò che oggi rende il realismo tanto plausibile è lo scetticismo sulla guerra in Iraq e la convinzione che tale conflitto sia stato parte di una crociata per "imporre" la democrazia con la forza. Io credo, al contrario, che lo scopo della guerra fosse quello di rimuovere una minaccia alla sicurezza nazionale e internazionale. La guerra in Iraq poteva essere giusta o sbagliata, ma non era una guerra per imporre la democrazia, e la decisione di creare un governo rappresentativo dopo l'intervento era l'opzione più realistica rispetto alle alternative (insediare un altro dittatore o prolungare l'occupazione Usa). In Afghanistan si è fatta la stessa scelta per le stesse ragioni, dopo la caduta dei Talebani, e molti realisti hanno non solo appoggiato quella decisione, ma incitato a impegnarsi ancora di più negli sforzi di nation-building.
Non è questo il luogo per tornare a discutere del conflitto iracheno, perciò stabiliamo che la questione di cui si sta parlando non è se usare o meno la forza militare per promuovere cambiamenti nella natura degli Stati; è se - e come - promuovere questi cambiamenti per vie pacifiche. A questo proposito è in corso un dibattito autentico fra i realisti e i loro avversari. E un desiderio di pragmatismo non va confuso con una dottrina di politica estera specifica, che sminuisce l'importanza del cambiamento all'interno degli stati.
1) Barack Obama è un vero realista?
Non è chiaro. I detrattori del realismo, come me, non pensano che una gestione pratica delle "relazioni fra stati" dovrebbe condurci a trascurare le problematiche che riguardano la "natura degli stati". In realtà la composizione interna degli stati ha un effetto enorme sul loro comportamento esterno, e dunque la politica estera Usa non può non tenerne conto.
Giudicando dalle sue stesse parole, Obama sembra concordare con questa tesi, non con il dogma realista. A Mosca, il presidente americano ha deliberatamente scavalcato i leader del Cremlino rivolgendosi ai russi e dicendo loro: «I governi che servono gli interessi del loro popolo sopravvivono e prosperano; i governi che servono solo gli interessi del proprio potere no». Al Cairo ha dichiarato: «È il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l'unico parametro per tutti coloro che sono al potere». E in Ghana è stato ancora più chiaro: «Nessuno vuole vivere in una società dove il diritto cede il passo alla brutalità e alla corruzione. Questa non è democrazia: questa è tirannia e ora è tempo che finisca». A me queste parole piacciono, ma forse a qualche realista no.
Anche le prime azioni concrete di Obama non sembrano dar mostra di un realismo dottrinario. Il nuovo presidente sostiene la democrazia in Pakistan e in particolare in Iraq, dove sta portando avanti una politica che guarda avanti, non indietro, mantenendo l'impegno degli Stati Uniti e al tempo stesso facendo pressione sugli iracheni perché assolvano alle loro responsabilità. Sull'altro versante, invece, c'è da dire che la sua amministrazione non ha offerto un gran sostegno allo straordinario movimento riformista iraniano. Formalmente per timore che i riformatori venissero etichettati come agenti degli americani, ma il regime iraniano ha comunque affibbiato loro questa etichetta, e viene da pensare che la cautela della Casa Bianca sia stata il riflesso di un'errata preoccupazione per i negoziati che spera di intraprendere riguardo al programma nucleare iraniano: non che questi negoziati non siano importanti, ma il loro successo o fallimento dipenderà dalle pressioni che gli americani riusciranno a esercitare.
CONTINUA ...»