Secondo tutti gli scenari futuri, il debito americano è destinato a salire, anche in modo straordinario. E malgrado l'ottimismo ostentato dai keynesiani, questa è una brutta notizia, perché gli Stati Uniti non possono dichiararsi insolventi, ma onorare il debito li costringerebbe a ridurre le spese per la difesa. Mettendo a rischio la propria sicurezza e il proprio status nel mondo.
Sorvolando l'Atlantico in un giornata limpida e serena, si può osservare lo stesso fenomeno in quattro scale molto diverse. A un capo sta la minuscola Islanda; poi c'è la piccola Irlanda, seguita dalla Gran Bretagna, leggermente più grande. Sono tutte notevolmente più piccole dei potenti Stati Uniti. In tutti i casi, però, la crisi economica ha assunto la medesima forma: una gravissima crisi bancaria, seguita da un'altrettanto grave crisi fiscale dopo che il governo è intervenuto per salvare il sistema finanziario privato.
Le dimensioni contano, naturalmente. Per i paesi più piccoli, le perdite finanziarie, se misurate in rapporto al Pil, sono molto più pesanti di quelle subite dagli Usa. Per l'America la posta in gioco è però ben più alta. Diciamolo francamente: nel grande schema delle cose non conta granché se l'Islanda, o l'Irlanda, barcollano sull'orlo del baratro fiscale. Le popolazioni locali soffrono, ma il mondo continua ad andare avanti. Ma se gli Usa dovessero precipitare in una crisi fiscale – come teme un numero sempre maggiore di economisti – allora l'intero assetto dei rapporti di forza nell'economia mondiale potrebbe subire un profondo rivolgimento.
Gli esperti militari sono convinti che il successo o il fallimento della presidenza Obama dipenda dalla decisione d'inviare o meno altri 40mila soldati in Afghanistan. In realtà, la sua indecisione sul problema del deficit potrebbe avere conseguenze ben più gravi, a lungo termine, per la sicurezza nazionale. Comunque si vogliano definire gli Stati Uniti – superpotenza, stato egemone, impero – la loro capacità di gestire le finanze è direttamente proporzionale alla loro capacità di continuare a essere la potenza militare dominante.
L'escalation del debito Usa
I discepoli di John Maynard Keynes sostengono che l'aumento del debito federale – di circa un terzo – è stato necessario per evitare una nuova Grande depressione. Forse è vero, anche se si potrebbe replicare che i presunti vantaggi della manovra di stimolo sono stati esagerati e che il “magico moltiplicatore” (che dovrebbe trasformare ogni dollaro di spesa pubblica in una cifra molto più alta in termini di domanda aggregata di mercato) si è rivelato d'insignificanti proporzioni. Bisogna però riconoscere anche i giusti meriti. L'indice positivo di crescita per il terzo quadrimestre sarebbe stato ben più basso senza gli stimoli fiscali. Tra la metà e i due terzi dell'aumento reale del Pil sono attribuibili a programmi governativi, in particolare al piano d'incentivi per la rottamazione delle auto e ai sussidi per l'acquisto della prima casa. Ma siamo ancora lontani da una ripresa capace di autoalimentarsi.
La stessa crescita del terzo quadrimestre è stata recentemente ridimensionata dal 3,5% al 2,8 per cento. Cosa che non deve sorprendere: non dimentichiamoci che ciò che determina il successo di un piano di stimolo è il cambiamento che si realizza nel processo d'indebitamento da parte dell'intero settore pubblico. Poiché il governo federale aveva già un consistente deficit – e considerando che diversi stati dell'Unione stanno aumentando le tasse e tagliando le spese – la portata concreta dello stimolo si avvicina al 4% del Pil nell'arco del quadriennio 2007-2010, ossia molto meno dell'eclatante deficit dell'11,2 per cento. Nel frattempo consideriamo il costo di questo stimolo “in sordina”. Il deficit per l'anno fiscale 2009 si è attestato attorno a 1,4 trilioni di dollari, appunto circa l'11,2% del Pil, secondo i dati del Congressional Budget Office (Cbo). Si tratta del deficit più alto registrato negli ultimi sessant'anni, leggermente superiore, in proporzione, anche a quello del 1942.
Abbiamo la politica fiscale di un paese impegnato in una guerra mondiale, ma senza la guerra. È vero che gli Usa sono in guerra in Afghanistan e hanno un folto contingente di truppe in Iraq, ma sono conflitti di poco conto in confronto a una guerra mondiale, e il loro contributo all'addensarsi della tempesta fiscale che incombe sul paese è stato piuttosto modesto (poco più dell'1,8% del Pil, anche accettando il costo complessivo di 3,2 trilioni di dollari stimato da Joseph Stiglitz nel febbraio 2008). E questo buco da 1,4 trilioni di dollari è solo l'antipasto. Secondo le più recenti proiezioni del Cbo, il deficit federale scenderà al 9,6% nel 2010, al 6,1 nel 2011 e al 3,7 nel 2012. Dopodiché dovrebbe attestarsi più o meno stabilmente a poco più del 3 per cento. Nel frattempo, in termini monetari, il debito pubblico (escludendo quello delle agenzie governative, ma includendo quello contratto con investitori stranieri) salirà dai 5,8 trilioni di dollari del 2008 a 14,3 trilioni nel 2019, vale a dire dal 41 al 68 per cento.
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