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Fin dove si può arrivare?
In altre parole, questa frenesia d'indebitamento non sembra aver fine. A meno di tagliare la previdenza sociale o di aumentare le tasse, non riusciremo mai ad avere nuovamente un bilancio in pareggio. Supponiamo che io sia destinato a vivere ancora trent'anni, fino al 2039. In quell'anno, il debito pubblico federale avrà raggiunto il 91% del Pil, almeno secondo le proiezioni di lungo termine del Cbo. Non c'è da preoccuparsi, ribattono gli economisti amanti del deficit, come Paul Krugman. Nel 1945, dopo tutto, il debito era al 113 per cento. Anche sorvolando sulle enormi differenze tra gli Usa del 1945 e del 2039, in base allo scenario fiscale più pessimistico prospettato dal Cbo, il debito potrebbe raggiungere il 215% entro il 2039. Proprio così: più del doppio del prodotto annuo. Fare previsioni su uno scenario così lontano non significa affatto cercare di divinare il futuro. Tutto dipende dalle ipotesi di base sull'andamento demografico, sui costi del sistema sanitario e su una serie di altre variabili.
Per esempio, il Cbo prevede, per i prossimi trent'anni, una crescita annuale media del Pil del 2,3 per cento. Il dato serve a dimostrare le implicazioni del cronico sbilancio tra spese ed entrate federali, e queste implicazioni sono chiare: in nessuno degli scenari prospettati avremo una riduzione del debito, e in due di essi il debito si moltiplica quasi di cinque volte in rapporto all'output. Per previsioni di questo tipo si può anche calcolare il valore attuale netto delle passività non consolidate del sistema di previdenza sociale e di quello sanitario. Secondo una recente stima, tale valore si aggira attorno a 104 trilioni di dollari, dieci volte il debito federale.
Niente paura, replicano i keynesiani. Possiamo tranquillamente sostenere un trilione di dollari all'anno di nuovi debiti governativi. Basta guardare come le singole famiglie e le istituzioni finanziarie del Giappone hanno sostenuto l'esplosione del debito pubblico (arrivato fino al 200% del Pil) durante i due “decenni perduti” di crescita quasi zero iniziati nel '90.
Sfortunatamente, questa tesi è tutt'altro che dimostrata. Le famiglie americane, nel secondo quadrimestre del 2009, hanno di fatto venduto titoli di stato, e in altissima proporzione. Gli acquisti operati da fondi comuni d'investimento sono stati modesti (142 miliardi di dollari), mentre quelli fatti da fondi pensionistici e compagnie assicurative sono stati insignificanti (rispettivamente 12 e 10 miliardi). La chiave di tutto, perciò, sta nelle banche. Attualmente, secondo i dati del Bridgewater Hedge Fund, l'investimento delle banche Usa in obbligazioni governative si aggira attorno al 13%, un valore basso rispetto agli standard storici. Se le banche riportassero questi investimenti al valore dell'inizio degli anni 90, è possibile che riescano ad assorbire l'acquisto di circa 250 miliardi di dollari all'anno di obbligazioni governative. Ma si tratta di un grande “se”. I dati relativi a ottobre indicano che le banche commerciali stanno anzi vendendo i propri titoli di stato.
Rimangono così solo due potenziali acquirenti: la Federal Reserve, che ha acquistato la gran parte dei titoli di stato emessi nel secondo quadrimestre, e gli investitori stranieri, che ne hanno comprati per un valore pari a circa 380 miliardi di dollari. Gli analisti di Morgan Stanley hanno passato al setaccio tutti i dati e stabilito che, nell'anno che si concluderà a giugno del 2010, ci potrebbe essere un “buco” nella domanda di circa 598 miliardi di dollari, un terzo della nuova emissione prevista.
Ci salveranno i cinesi?
Naturalmente, i nostri amici di Pechino potrebbero venire a salvarci incrementando la loro già elevata quota del debito pubblico Usa. Negli ultimi cinque anni hanno continuato ad ammassare quantità senza precedenti di riserve di valuta americana, intervenendo soprattutto per impedire che la valuta cinese si rivalutasse sul dollaro. In questo momento, la Cina possiede circa il 13% delle obbligazioni statali americane e della valuta corrente. All'apice di questo processo di accumulazione di riserve, nel 2007, assorbiva quasi il 75% delle emissioni mensili di titoli di stato. Ma nel campo della finanza internazionale non esistono favori gratuiti. Secondo Fred Bergsten, del Peterson Institute for International Economics, se questa tendenza dovesse continuare, il deficit corrente degli Usa potrebbe arrivare al 15% del Pil entro il 2030, e il debito netto verso il resto del mondo potrebbe salire al 140% del Pil. In tale scenario, ogni anno Washington dovrebbe ripagare agli investitori stranieri, per onorare il suo debito esterno, una cifra pari ad almeno il 7% del Pil.
È uno scenario sostenibile? Ne dubito. I cinesi continuano a protestare che possiedono già troppi titoli di stato Usa. Sembra inoltre più probabile una significativa svalutazione del dollaro, dato che gli Usa si trovano nella fortunata posizione di poter contrarre prestiti nella propria valuta e mantengono il diritto di coniarne in qualsiasi quantità decida la Fed. Indovinate chi è stato a fare la seguente affermazione: «La mia previsione è che i politici cederanno prima o poi alla tentazione di risolvere la crisi fiscale nel modo normalmente adottato dai governi irresponsabili: stampando denaro, sia per pagare i conti già in sospeso sia per deflazionare il debito. E non appena questa tentazione diverrà palese, i tassi d'interesse sono destinati a salire alle stelle». Mi sembra una previsione del tutto ragionevole. La cosa sorprendente è che il suo autore sia Paul Krugman in un articolo del marzo 2003. E un anno e mezzo più tardi ha addirittura paragonato il deficit Usa (allora al 4,5% del Pil) a quello dell'Argentina. La situazione economica è davvero mutata in modo così drastico e profondo che ora lo stesso Krugman crede che sia stato «il deficit a salvarci», ed è pronto ad accettare un deficit ancora più abissale? Forse. Ma potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che il partito al potere è cambiato.
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