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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2011 alle ore 15:26.

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Quando, tra circa cinquant'anni, le riforme pensionistiche saranno pienamente in vigore, la spesa si assesterà intorno al 14% del prodotto interno lordo, ossia al livello dal quale è partita agli inizi degli Anni '90. Quello che può sembrare un piccolo risultato, lo è solo se si dimentica che in questo periodo la percentuale della popolazione anziana sulla popolazione lavorativa (il tasso di dipendenza degli anziani) raddoppierà, passando dal 30 a oltre il 60 per cento.

La stabilizzazione del "debito pensionistico" sarà ottenuta con un meccanismo analogo a quello di un'imposta patrimoniale: le riforme tagliano a quasi tutte le generazioni, ma soprattutto a quelle giovani, una parte della ricchezza pensionistica (diritti previdenziali) che avevano o avrebbero accumulato. Per conseguenza, ci sarà una differenza crescente nel tempo tra le pensioni effettive e quelle, ben più generose, che si sarebbero ottenute senza le riforme. È suggestivo scorgere in questa dinamica un'analogia con il debito pubblico che, come il debito pensionistico, opprime pressoché tutti i moderni paesi ricchi, soggetti ad accentuati processi di invecchiamento: un debito "troppo" elevato (in rapporto al reddito del paese) potrebbe richiedere operazioni finanziarie straordinarie. Sul debito pensionistico l'operazione si sta facendo, sia pure in modo lento e faticoso.

È interessante leggere questa operazione finalizzata alla sostenibilità del sistema da due diversi spaccati, che si integrano in un unico quadro di insieme. Da un lato, appunto, la sostenibilità finanziaria di lungo periodo; dall'altro, la redistribuzione di risorse derivante da regole differenziate per generazioni-genere-categorie professionali.

La prima prospettiva implica l'equilibrio tra entrate contributive e spesa pensionistica, e la stabilizzazione di quest'ultima sul Pil: il sistema diviene tendenzialmente autosufficiente, se non anno su anno, almeno nel medio periodo, senza accumulazione di debiti o di avanzi. Prima delle riforme, al contrario, l'andamento della spesa in rapporto alle risorse prodotte nel paese era sempre crescente, e quindi non sostenibile, come sarebbe per una famiglia il cui bilancio fosse sempre più assorbito dalla spesa per l'abitazione o per l'alimentazione.

Come accennato, l'obiettivo sarà pienamente raggiunto solo ben oltre il 2050 dato che l'Italia, a differenza della maggior parte degli altri paesi europei, preferisce il gradualismo esasperato alle "docce fredde"; nel frattempo la quota di spesa sul Pil crescerà, per poi decrescere gradualmente, provocando la cosiddetta "gobba pensionistica".
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Questo obiettivo prevede che i lavoratori possano (e debbano) compensare con un più lungo periodo lavorativo la maggiore longevità e la minore generosità dei trattamenti.

Quest'ultima, a sua volta, è riconducibile alla formula contributiva, che fa dipendere l'importo della pensione sia dall'ammontare dei contributi versati nell'arco di tutta la vita lavorativa, sia dall'età di pensionamento. Al pregio della sostenibilità, la formula unisce quelli dell'uniformità di trattamento e della trasparenza, rappresentando un taglio netto rispetto alla tradizionale formula retributiva (ancora in vigore, per effetto della transizione), che lega l'importo della pensione a una media delle ultime retribuzioni e al numero di anni di contribuzione, senza riguardo all'età di uscita e con molte differenziazioni tra i regimi applicati alle diverse categorie dei lavoratori, così che per alcune la partecipazione al sistema pensionistico pubblico è risultata un vero "affare" (come documentato nel l'articolo di Belloni e Coda, pubblicato sotto).

Per usare i loro calcoli, chi, avendo versato nel corso della vita lavorativa contributi capitalizzati pari a 100, se ne vede restituire sotto forma di diritti pensionistici, per esempio, 140 ottiene un bel "regalo", che in realtà rappresenta un onere per qualcun altro, visto che il sistema previdenziale non crea ricchezza. I lavoratori autonomi, i professionisti, i dipendenti pubblici sono tutte categorie privilegiate rispetto ai lavoratori dipendenti del settore privato, ma perderanno il loro vantaggio con il passaggio al contributivo (operazione dalla quale, peraltro, i politici si chiamano completamente fuori!). Questo spiega perché, accanto alla sostenibilità finanziaria, l'eliminazione delle differenziazioni (e dei vantaggi/penalizzazioni che ne derivano) rappresenta un caposaldo della riforma.

Tutto bene, dunque? Possiamo dirci soddisfatti di quanto è in corso di realizzazione? Purtroppo non del tutto perché da un lato la lunga transizione allunga il tempo degli squilibri e dei privilegi per alcuni; dall'altro, perché c'è sempre il rischio che nuovi interventi legislativi modifichino il metodo contributivo prima che entri in vigore.
E qui si innesta una seconda preoccupazione: questo metodo, infatti, funziona bene se crescono gli occupati e il loro reddito, cioè il Pil, mentre la troppo bassa crescita italiana ne impedisce il buon funzionamento. Senza crescita, però, le riforme del passato sono destinate a non produrre gli effetti attesi e c'è il rischio di un ritorno alle alchimie politiche per aumentare artificialmente la generosità delle pensioni.

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