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Questo articolo è stato pubblicato il 13 novembre 2012 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 13 novembre 2012 alle ore 09:01.

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Londra 1940. La Holland House Library distrutta dai bombardamenti aerei nazistiLondra 1940. La Holland House Library distrutta dai bombardamenti aerei nazisti

Capita sempre più spesso di leggere articoli di giornale in cui si ragiona della necessità di ricorrere a manager e a privati per gestire e amministrare gli aspetti economici del nostro patrimonio culturale, riservando ai tecnici (archeologi, architetti e storici dell'arte) il compito della tutela. Ferma restando la convinzione che pubblico e privato possano e, anzi, debbano lavorare insieme (come da molti anni succede agli Uffizi) non trovo più parole per esprimere concetti che non sottendono affatto – come si vuol far credere – l'autodifesa d'una categoria, bensì la salvaguardia di beni gratuitamente pervenutici.

Beni che vanno certamente annoverati fra le risorse del paese, senza però mai confondere la valorizzazione con lo sfruttamento e senza mai scordare che "valorizzare" significa soprattutto portare alla conoscenza ciò che il tempo ha lentamente velato. Solo dopo aver recuperato il "valore" culturale, sarà possibile volgersi a quello finanziario. Proverò allora a enunciare sinteticamente qualche pensiero formulato nell'introduzione al primo Bollettino degli Uffizi, principiando da una riflessione sull'esposizioni, che non mi paiono esulare dagl'interessi dei privati.

Le mostre hanno (sarebbe invero da dire: dovrebbero avere), al pari dei musei, una funzione educativa e quasi per forza presuppongono la presenza d'opere d'arte per lo più provenienti giusto dai musei; ma è anche vero che, proprio per la proliferazione delle mostre medesime, si fa sempre più urgente la necessità di meditare sull'identità sia del museo che dell'esposizioni temporanee. Se il museo è il luogo dove si conserva (e s'avvalora) il patrimonio che ad esso pertiene, le mostre sono l'occasione per rinnovare la riflessione su artefici, stagioni, culture.

Il primo è dunque stabile (non immobile), le seconde sono episodiche (non irrisorie). Ma perché queste connotazioni restino valide credo sia indispensabile tornare a pensare all'esposizioni come a iniziative culturali vòlte all'educazione, tenendo in giusto conto il rapporto fra investimento e introiti, ma non dimenticando mai che il fine ultimo è l'arricchimento dell'animo. Parole - ne sono cosciente - che in questa nostra confusa stagione suoneranno come quelle d'un grillo parlante; e, non di meno, parole da dire a voce alta.

Se ci si mette a tavolino con l'intento di trovare un argomento che assicuri il successo economico, già si parte col piede sbagliato. Verrà infatti naturale pescare nelle acque stagnanti della mitologia turistica. E allora nomi altisonanti e opere eclatanti; e pazienza se si metterà a repentaglio la sicurezza di creazioni che sono ai vertici della poesia d'ogni tempo. Di sicuro si potrà contare su una rendita fruttuosa. Ma è questo che si richiede a chi deve conservare i beni dello Stato o a chi deve contribuire alla formazione di coscienze più mature?

Facile ottenere successo spostando da un museo d'un continente a quello d'un altro una tavola sublime di Leonardo o di Botticelli o di Raffaello. Ma non serve forse, questo, ad alimentare la potenza dei feticci più che a far comprendere la cultura e la spiritualità che a un'opera son sottese? Ogni volta che s'è scelto d'esporre solitario un capolavoro di quelli celebratissimi ne son conseguite code di visitatori di cui non si scorgeva la fine. E dunque sempre s'è parlato giustappunto di grande successo. E certo è così se ci si fonda sui numeri. Siamo sicuri però che lo stesso si possa dire sul piano dell'educazione? Basta un "capolavoro" per ottenere il risultato sperato; che non è quello d'istruire, ma di sbalordire e far cassetta. Sicché a maggior ragione vien di chiedersi se, per soddisfare esigenze per lo più connesse soltanto agli affari, sia giusto privare i musei di testi importanti, per i quali oltre tutto la gente traversa gli oceani.

Sono considerazioni che regolarmente vengono tacciate di moralismo. E però si dovrà convenire che si tratta d'un tema molto delicato, soprattutto in un momento in cui sempre più spesso si discute sull'opportunità di sostituire i tecnici storici dell'arte con gl'imprenditori (invero la parola usata è manager; forse perché dà più sicurezza a chi la pronuncia e a chi l'ascolta). Ai tecnici - si usa dire - spetterebbe la tutela, ai manager il compito di valorizzarla sotto il profilo della rendita finanziaria. Non mi pare tuttavia così astruso congetturare che a un manager, messo a gestire il patrimonio d'un museo ospitante capolavori, possa venire in mente di desumerne introiti cospicui concedendoli in prestito per periodi di varia durata. D'altronde è quello che si sta meditando anche in altri musei ragguardevoli; al segno di prospettarne clonazioni nei deserti.

Un manager deve dar conto, a chi gli ha affidato un incarico, di quanto economicamente producano le sue imprese. Uno storico dell'arte che abbia l'incombenza della tutela non può fermarsi alla valutazione del ritorno in danaro. A lui - anche in qualità di storico - spettano le osservazioni sull'inamovibilità dell'opera che sia appunto oggetto di un'impresa, sul suo stato di conservazione, sull'effettiva portata educativa del progetto in base al quale se ne chiede il prestito, sul disagio che ne verrà a coloro che, magari da terre lontanissime, si son mossi per vederla, e finalmente anche sull'immagine che ne sortirà per la collezione che lui è chiamato a proteggere e valorizzare. A chi badi soltanto a riscontri solleciti e a incassi sostanziosi è ovvio che tutti questi criteri parranno solo perniciose disquisizioni sofistiche, utili unicamente a inceppare i meccanismi del guadagno. A chi invece abbia a cuore il futuro dell'eredità bella toccataci, sembreranno perfino riflessioni ovvie. E alla fine non è poi neppure detto che un rientro economico immediato, qual è quello connesso a un prestito eclatante, risulti (almeno in un paese che non sia di vista corta) più sostanzioso di altri che - nel tempo, con maggiore oculatezza e con programmi meno sbrigativi - se ne desumano.

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